Di padre somalo e madre italiana, Ubah Cristina Ali Farah è nata a Verona ma cresciuta a Mogadiscio. Nel 1991, durante la guerra civile, è emigrata con la sua famiglia, prima in Ungheria e poi in Italia. Dopo aver vissuto a lungo a Roma, risiede oggi a Bruxelles. Ha pubblicato i romanzi Madre piccola (Frassinelli) vincitore del Premio Vittorini, e Il comandante del fiume (66thand2nd), mentre all’inizio di quest’anno è uscito per Juxta Press il racconto lungo La danza dell’orice. Da gennaio è artista residente presso lo Stias (Stellenbosch Institute of Advanced Studies) in Sudafrica, dove ha deciso di rimanere a trascorrere il lockdown, in quella che lei definisce «una prigione dorata», interrogandosi sul concetto di casa e patria. «Se apparteniamo a questo pianeta il destino di tutti ci è proprio. Se la pandemia mi ha sorpresa qui, deve esserci una ragione. Non c’è patria che tenga».

Come sta trascorrendo questo periodo di lockdown?
Stellenbosh (vicino a Cape Town) è un’università importante, la lingua ufficiale è l’afrikaans e c’è un clima molto «europeo», anche dal punto di vista architettonico. Ho tantissimi privilegi e non faccio fatica a essere sola, ma soprattutto all’inizio mi sono interrogata sul perché molti degli altri fellows hanno deciso di rientrare. L’idea di affrontare quei voli di rimpatrio era inquietante per me che non so bene dov’è «patria», e in un momento in cui la situazione in Europa era più pericolosa rispetto a qui. Mi sono chiesta: «rimpatriare dove?». Avendo personalmente vissuto la guerra e l’esperienza della migrazione, la mia famiglia è la mia casa e la mia patria. All’inizio ero turbata perché mi sono trovata in una specie di comprensorio – che prima era una fattoria – senza più nessuno, e questo significa avere a che fare con una solitudine anche fisica, rimisurarsi con lo spazio e con il tempo.

Come vivono i sudafricani questo momento?
La situazione è drammatica. Oltre ad esserci regole molto dure, è stata proibita anche la vendita di alcol e sigarette per questioni di salute. Dal punto di vista dell’economia e dell’ordine pubblico ha creato dei disastri, perché è sempre una questione di classe sociale, questa è una società «super-iniqua», nelle township le persone sono perseguitate se cercano anche solo di procurarsi una birra. Molti hanno perso il lavoro, la gente ha fame, il rischio di rivolte sociali è sempre dietro l’angolo. A differenza di me, ci sono persone che vivono ammassate in spazi minuscoli. Questo mi ha fatto riflettere e trattenuta dallo scappare, non mi sarei permessa di farlo.

Ora a cosa sta lavorando?
Ho un progetto per un romanzo a cui stavo pensando da diversi anni (dal titolo provvisorio Le stazioni della luna, previsto in Italia nel 2021). La tesi del mio dottorato affrontava il teatro popolare somalo nel periodo che va dagli anni ’40 agli anni ’80. Era un genere che non esisteva prima, è iniziato come strumento delle lotte per l’indipendenza. Durante la ricerca avevo avuto occasione di accedere a materiale fotografico e a molti testi inediti (presso l’Archivio Somalia di Romatre), tradurli, intervistare attrici. È stato un periodo particolare anche per l’Italia, che ha dovuto lasciare la Somalia sconfitta dagli inglesi e poi è tornata in una ex colonia con funzioni molto diverse. La mia intenzione è di mescolare le due parti. I due mondi sono strettamente connessi e voglio esplorare la convivenza di due culture e lingue, la tensione che si genera, in base alle memorie personali e al materiale raccolto. Sono nata negli anni ‘70, molto tempo dopo. Mogadiscio allora era una specie di bolla, un po’ come stiamo vivendo qui ora; si era isolati, le notizie arrivavano in ritardo, anche un certo tipo di modernità, tutto procedeva a rilento. È prezioso vedere come le emozioni che viviamo nel presente ci aiutino a ripensare a eventi del passato, anche se apparentemente molto distanti. Hanno la forza di farci ragionare su delle questioni irrisolte. Come l’idea di patria.