La poesia è un’attività contemplativa, sganciata da più concrete implicazioni politiche? Questo è almeno lo stereotipo romantico che abbiamo ereditato ed è «un marchio che resiste alla pomice». Un’analisi della produzione lirica contemporanea sembra rivelarci il contrario. Si assiste, infatti, sempre di più a un compenetrarsi di motivi che non riguardano direttamente la cosiddetta «poesia civile» ma si irradiano su tutte le tecniche e le forme a disposizione del poeta, dando l’impressione di un’estrema consistenza, di un realismo esacerbato: anche un testo d’amore può occuparsi fra le righe – in un incremento della letterarietà – di pace, giustizia sociale, ambiente.

LEGGERE Yehuda Amichai per credere. Nato a Würzburg in Germania nel 1924 ed emigrato molto presto in Palestina con i genitori, Amichai è considerato uno dei maggiori autori ebraici del Novecento, sicuramente il «più tradotto al mondo dopo Re David». Ha dichiarato il poeta inglese Ted Hughes – suo grande estimatore – che egli, «scrivendo dei suoi più intimi spasimi d’amore», «scrive inevitabilmente di guerra, politica e religione». Non si tratta di semplici allusioni, ma d’inestricabili intrecci con significati convergenti.

Al centro dell’opera di Amichai c’è «l’abbagliante Gerusalemme» in una presenza trasfigurata, e le relazioni affettive sono intessute di lontananza e dolore, ingredienti ben visibili nell’antologia proposta da Crocetti, Poesie (traduzione di Ariel Rathaus, pp. 132, euro 13). Un esempio: «Quando la donna amata lo abbandona, / un uomo è invaso dentro un vuoto / tondo come una grotta / in cui si formeranno stalattiti stupende. / Lentamente, come dentro la Storia / lo spazio vuoto riservato al senso, / allo scopo di tutto, alle lacrime». L’apparente nitidezza delle parole, il potere stentoreo delle immagini fanno sì che il lettore rimanga con un sentimento inespresso, liquido, nel quale risiede il contenuto più genuino della critica politica travasata da Amichai.

Sentimento riscontrabile, peraltro, nelle ultime liriche dell’irlandese Derek Mahon, presentate da Alessandro Gentili nel numero sei della rivista «Poesia» (Crocetti, pp. 128, euro 13). Mahon, morto a Cork il primo ottobre dello scorso anno, sodale di Seamus Heaney e Michael Longley, «riesce elegantemente a combinare toni lirici e ironica, perfino arguta, vivacità, ricchezza di immagini ed essenzialità». Non manca il grido d’allarme lanciato per la difficile situazione ambientale del nostro pianeta. Ecco l’incipit di Sciacquando: «Tu curi la gastronomia, e io sciacquo / e risciacquo sotto il rubinetto aperto. / Mi fa piacere, nell’insieme. Mi dà tempo / di pensare alle nostre vite / qui sul filo, no, l’occhio / dell’esistenza vera, cielo e vento / operando insieme a definire / i confini del dominio nostro. / C’è così tanto da sciacquare / ora sul pianeta degradato – / oceani e foreste, sabbie oleose».

DI GUERRA racconta un autore che l’ha vissuta sulla propria pelle: lo statunitense Bruce Weigl, classe ’49, originario dell’Ohio, è un veterano del Vietnam, tornato negli States dopo il ’67 e ora professore di scrittura creativa al Lorain County Community College. In Rumore, il primo florilegio dei suoi versi in Italia tradotto da Giulio Segato (introduzione di Raffaella Baritono, Ventura Edizioni, pp. 154, euro 13), Weigl riesce a «delineare con delicatezza la geometria invisibile e implacabile dei differenti mondi», l’America e il Vietnam appunto: mondi stratificati «quasi impercettibilmente / come le tele di ragno sul letto calcareo dei ruscelli». La vicenda bellica è stata talmente segnante per Weigl che in seguito ha anche adottato da un orfanotrofio un bambino vietnamita, preservando in lui le origini e i tratti culturali di appartenenza.

E qui da noi? La selvosa antologia Braci, allestita da Arnaldo Colasanti (Bompiani, pp. 448, euro 18), ricompone innanzitutto – ma non solo – un gruppo di poeti che si oppose negli anni Ottanta allo sperimentalismo d’avanguardia, e acquisisce un proprio metodo di «auscultazione» ermeneutica dei testi presi in esame. Si va da Beppe Salvia a Umberto Piersanti, da Valerio Magrelli a Milo De Angelis, da Antonella Anedda alla giovanissima Maria Borio: le voci incasellate in cinque sezioni sono sessantaquattro e l’obiettivo del curatore coincide con la nietzschiana «virtù della modestia», mettendo così in rilievo un gesto strategico di catoniana libertà.

La rinuncia a storicizzazioni ideologiche, l’assenza di «qualsiasi tentativo surrettizio di incastrare scuole, geografie, mappe» si spiegano con la pura centralità della poesia e della lingua, con l’«assoluta irriducibile individualità di un’esperienza vivente». Forrest Gander ci aveva avvertito: «La politica inizia nell’intimità».