La cronaca nera è una brutta bestia. Entrarci dentro può voler dire tuffarsi all’interno di una realtà possibile e trovarsi circondati da fatti, cose e persone che raccontano ciò che non vorremmo ascoltare e poi forse nemmeno capire. Selene Pascarella con il suo Pozzi. Il diavolo a Bitonto (Alegre, pp. 272, euro 16) ci porta nel ghetto del ghetto della profonda Puglia degli anni settanta, in un paese di quarantamila anime dove, tra i poverissimi, nel giro di nove mesi cinque bambini vengono ritrovati morti annegati nei pozzi e nelle cisterne per l’acqua piovana. Una storia incerta e inquietante che, ai tempi, fece un gran rumore e che oggi non ricorda più nessuno, forse per il troppo orrore o perché gli angoli della provincia sono troppo oscuri per essere osservati. È comunque passato molto tempo, sono successe numerose cose nel frattempo e del «fattaccio» si è persa ogni traccia. Pozzi, in effetti, è un esercizio di memoria in cui realtà, finzione, leggenda, voci e silenzi si mischiano ed escono fuori a pezzi dagli archivi e dai racconti dei pochi che ancora, appunto, rammentano. Ovvero non si sono lasciati ingannare troppo dalla memoria. Il filo conduttore è il racconto in presa diretta di Esselio, testimone dell’orrore e coscienza collettiva della Bitonto del tempo che fu.

ROMANZO, libro d’inchiesta, reportage sulla provincia meridionale, saggio sociologico sull’essere minoranza, lezione sul cinema di genere: Selene Pascarella mette in piedi un «oggetto narrativo non identificato» in cui la cronaca si amalgama fatalmente con il capolavoro di Lucio Fulci Non si sevizia un paperino, che arrivava in sala proprio mentre i bambini di Bitonto continuavano a fare una brutta fine.
A livello puramente narrativo, Pozzi è la prova che è possibile uscire dal dualismo tra racconto di finzione e racconto dal vero, perché spesso il reale è molto meno verosimile della finzione e perché, in fondo, per dirla con Vico, «la memoria è essa stessa fantasia». E Pascarella la interroga, questa memoria: sia la propria – quando l’autrice a un certo punto ammette di aver sentito la storia di Bitonto mentre scriveva la tesi di laurea e di essersela inspiegabilmente dimenticata per oltre quindici anni – sia quella collettiva (indicativa, in questo senso, la vicenda del cronista che, in tempi recentissimi, scrive un pezzo sui bimbi nel pozzo per un giornale online e riceve una telefonata, anonima e minatoria, che lo sconsiglia di andare avanti).

LA SOLUZIONE NON C’È: non stiamo parlando di un giallo, ma di un’indagine più profonda nell’anima di un popolo intero, alla ricerca del senso tra le strade senza uscita della cronaca nera. Un caso freddissimo che riemerge dalla tomba in cui era stato sepolto, anche se i contorni restano incerti, sono troppe le sfumature possibili, i profili che si vedono solo in controluce, ci muoviamo in un corridoio lungo come un incubo con tante porte, e dietro ciascuna soglia un orrore possibile, o quantomeno plausibile, sicuramente più concreto di quanto potrebbe farci piacere pensare. È la firma del diavolo, probabilmente.