Ha spiazzato il collettivo indonesiano Ruangrupa, forse anche infastidito soprattutto l’attitudine a non sforzarsi troppo per capire un processo e non porsi davanti a un prodotto finito ancorché composito.
La parola d’ordine di questa 15/a Documenta (Kassel, visitabile fino al 25 settembre) è «lumbung» che identifica più un movimento collettivo che un concetto, un modello collaborativo di utilizzo delle risorse intese come idee, conoscenze, programmi, effettiva costruzione di opere. In realtà, sorregge Documenta un’idea che parrebbe semplicissima e cioè che l’arte è processo collettivo.

LA MOSTRA, che più delle altre edizioni coinvolge ogni angolo della città, è una grande documentazione sull’uso sociale dell’arte, cioè di come l’arte si sta producendo nella società, soprattutto nelle società extraoccidentali, quando non accede, o non cede, al mercato anche per la complessità del processo collettivo di creazione che mette insieme saperi più disparati e che richiede un tempo di produzione lungo e non certo lineare. Arriva quindi dall’Indonesia una ripresa della «Dialettica dell’Illuminismo» e la critica all’ambigua complessità dell’ideologia capitalista che sembra ancora sopprimere la dialettica tra cultura e società.
Tutto ciò che produce un «finito» collettivo è presente in questa edizione, l’archivio, la biblioteca, il laboratorio, il magazzino, l’accampamento, l’officina, l’habitat e l’habitus. I temi sono quelli più sentiti e che ormai se vengono definiti di moda è per mancanza di forza a definirli brucianti, irrimandabili e cioè devastazione ambientale, lavoro che è schiavismo in gran parte del mondo, cancellazione di culture locali, povertà, ma anche ribellione, cooperazione, accoglienza.

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OGNI COLLETTIVO ha avuto a disposizione grandi spazi affinché il lavoro fosse una mega istallazione dove chi visita difficilmente riesce a fare un semplice passaggio. È richiesto tempo, non visite veloci, e quello che colpisce è sempre una cura straordinaria nell’allestimento, spesso spettacolare, di ciascuno spazio che attira e avvolge in rapporto fisico prima che mentale le persone e dipana, distende le opere e i molti meccanismi che le hanno composte. E della gran parte di quelle impegnative costruzioni estetiche, politiche, sociali, artistiche bisognerebbe scrivere, almeno riflettere.

NELL’IMPONENTE PALAZZO neoclassico del Fredericianum si trovano gli spazi bui e molteplici di Saodat Ismailova e un collettivo di artiste kazake, uzbeke, kyrgyse che fanno vagabondare in un labirinto fatto di materiali tradizionali e resoconti storici, stoffa di seta dove si proiettano volti lontani, materassi artigianali uzbeki perfomance e testi di suppliche sciamaniche per raccontare dei chilltan i «40 corpi» o «40 esseri» di nessun genere specifico. Nello stesso luogo, ma anche allo Stadtmuseum, con una particolare cura di allestimento, si vedono i lavori del Project Art Works che intercetta modalità di rappresentazione dello spazio dentro e fuori delle opere che destabilizzano anche chi è abituato a quotidiani confronti con l’arte.
Il collettivo lavora con artiste e artisti neurodiversi provenienti da molte parti del mondo e i disegni e le pitture in mostra costruiscono una cosmologia della cura, cioè complesse reti di relazioni e sistemi che formano modelli di cura in tutto il mondo e che sono accompagnati sempre da un’installazione sonora
Nell’Ottoneum, museo di Storia Naturale, Inland crea un lungo percorso nelle comunità rurali spagnole, nelle antiche modalità di coltivazione, nei rituali stagionali, in grandi mappe dove utensili e cicli di cultivar creano la strada verso l’immensa grotta finale concepita come una volta geobiologica, costruita per contenere forme primordiali e algoritmiche di rappresentazione, spiriti di animali estinti e deposito per la produzione di formaggio, camera di maturazione e microbiota di muffe e funghi. Tutto insieme crea un ambiente lisergico da cui si esce esaltati e al tempo convinti della propria ininfluenza.

NEL MITICO WH22, night di feste della comunità lgbtq+ durante la mostra, il collettivo marocchino LE18, allestendo una sorta di ampio salotto destrutturato pieno di video, libri, angoli per la conversazione, piccole porte da aprire, visitatori e visitatrici un po’ incerti sul da farsi, pone la questione principe del processo, delle sfide, dei fallimenti emersi durante la preparazione e la partecipazione a Documenta affrontando il senso di esaurimento e di (auto)sfruttamento innescato dai grandi eventi artistici.

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IL DELIZIOSO MUSEO dedicato ai fratelli Grimm, dove tuttavia un certo non lieve sentore antisemita è dato più dagli appunti dei due fratelli e dall’edificio ricostruito sulla villa di un costruttore di armi filonazista, ospita opere da favola su cui spicca, anche per la potenza cromatica dell’istallazione, Agus Nur Amal PMTOH che si muove tra Jakarta e Sumatra e che ha creato una sorta di grande mondo dei giocattoli secondo il principio sundanese del Tri Tangtu, un sistema di pensiero in cui il mistico, il razionale e il naturale si intersecano tra loro e servono come base per guidare la relazione degli umani con gli altri abitanti della Terra. Al centro della narrazione c’è la gioia di essere e interagire.
In un immenso hub dismesso fuori città si incrociano le strade dei collettivi più numerosi. Tra questi la Fondation Festival sur le Niger che per tutta l’estate animerà Documenta con performance e concerti eseguiti in contemporanea con la sede africana del Festival e che ha allestito immensi spazi con mostre di arte l’una nell’altra in cui costruiscono lo spazio statue, oggetti artigianali e rituali, istallazioni, progetti fotografici secondo la pratica del Bulon una stanza della casa, simile a un vestibolo, dove si pratica l’ospitalità, un valore centrale nella cultura maliana.
Accanto, Jatiwangi art Factory, più una comunità che un collettivo che copre tutto il sudest asiatico, con il progetto «Kota Terakota», parte dalle fabbriche che riforniscono mattoni al mondo intero e che sono strazianti inferni per chi ci lavora e le trasforma, attraverso pratiche artistiche condivise, in una nuova cultura dell’argilla modellando la città in base ai desideri della sua gente e all’elegante grazia di rituali violentemente cancellati dalla necessaria rapidità dei processi produttivi.

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IN QUESTO SENSO, «Kota Terakota» parla alla «terra» non solo come materiale, ma anche come ri-costruzione di territorio o idee che poeticamente hanno preso forma in quel capannone.
Tremano molte coordinate sciamando in ogni punto della città, ma certo non ci si perde seguendo, infine, Hamja Hasan e la sua segnaletica del progetto «Posizioni teologiche intorno al pollo fritto», in cui con humor e ironia unendo pollo fritto halal e khutbah (sermoni islamici) racconta della islamofobia che passa troppo spesso per semplificazioni ancor più risibili e scadenti di un pezzo di pollo.