Dennis Freedman divenne un collezionista nel 1998 quando, assistente del direttore artistico della rivista di moda «W», acquistò da Christie’s il suo primo pezzo di design Radicale italiano: la scultura Capitello in schiuma di poliuretano espanso dello Studio65. L’opera riproduceva inclinato l’elemento classico come fosse un frammento, ed era così ingombrante da occupare metà della stanza da letto del suo appartamento a Manhattan.
Da allora, disse Freedman, quell’oggetto «scatenò qualcosa dentro di me». Negli anni successivi, diventato direttore artistico di «W» e poi del famoso negozio newyorkese Barneys, continuò negli acquisti di opere ideate in quel nostro ventennio di vitalità creativa che tra gli anni sessanta e ottanta, si chiamò dell’architettura Radicale. Il termine lo aveva coniato nel 1969 Germano Celant per associare poetiche affini, quelle dei collettivi fiorentini Archizoom e Superstudio, ma poi fu esteso a inglobare i gruppi internazionali degli Archigram, Ant Fram, Haus-Rucker e Metabolism.
Scrisse Haskell che «i progressi del gusto e degli studi sono soggetti all’accidentalità, alla vanità, all’avidità, e, più in generale, all’imprevisto». Vale per gli antichi maestri ma anche per i contemporanei, inclusi architetti e designer. Per quelli Radicali, poi, scontiamo purtroppo che neppure l’«imprevisto» abbia prodotto raccolte significative nei nostri musei pubblici (magra consolazione che nel 2001 sia nato a Firenze l’Archivio Superstudio, uno di quei gruppi dal quale Freedman fu inspiegabilmente attratto). All’opposto quanto è accaduto al Museum of Fine Arts di Houston con la donazione della collezione Freedman.
Ora, è rilevante segnalare il meritevole riconoscimento che ha ottenuto la collezione newyorkese con la mostra Radical: Italian Design 1965-1985 The Dennis Freedman Collection, chiusa a Houston lo scorso 26 aprile, tre giorni prima della morte di Celant. Il destino ha voluto che proprio per questa occasione ci lasciasse il suo ultimo scritto: merito di Cindi Strauss, curatrice della mostra e del museo statunitense, che ebbe l’accortezza di invitarlo all’evento.
Le settanta opere dell’esposizione si potranno rivedere a settembre a New Haven, nella kahniana Yale School of Architecture Gallery. Nell’attesa si può conoscerle sfogliando il catalogo (Yale University Press, pp. 224, euro 39,87), dove sono illustrate in modo luminoso, isolate ognuna nello spazio di due pagine su fondo bianco. Al lettore attento non sfuggirà il carattere eclettico della raccolta. Sotto la veste radical, infatti, Freedman condivide la tesi di Celant che sono tutti credibili e degni di attenzione gli oggetti che in maniera critica, ironica, utopica, hanno messo in discussione il prodotto industriale di derivazione funzionalista, cioè a dire il design che negli anni cinquanta aveva sposato gli ideali dell’essenziale, del semplice e dell’elementare, senza risolvere le contraddizioni del consumo indotto, del consenso forzato, dell’alienazione della fabbrica. Una generazione si ribellò a tutto questo rivendicando un diverso modo di intendere l’oggetto d’uso quotidiano, con il sottrarlo – sulla base delle teorie di Lefebvre e Debord – alla sua natura di merce di scambio per riconsegnarlo alla creatività e all’arte.
Freedman non vide la mostra al Museum of Modern Art di New York Italy: The New Domestic Landscape, curata nel 1972 da Emilio Ambasz, tuttavia, circa vent’anni dopo, ha seguito le tracce di una parte degli oggetti esposti in quella celebre occasione, che, come spiega la Strauss, ebbe un forte impatto sull’élite culturale statunitense, ma anche moltissime resistenze negli ambienti professionali dell’industrial design nordamericano, che rimasero refrattari allo «stile italiano» fino a quando l’internazionalizzazione del Salone del Mobile di Milano non determinò un cambiamento di scena che va sotto il nome di «made in Italy».
Anche la collezione Freedman, come la mostra del MoMa, segue un percorso diacronico, ma si concentra sull’intervallo che va dall’epopea della Pop Art all’«anti-design», con le loro variabili interne di gruppi o singoli designer, tutti accomunati dal superamento della banalità formale e dell’obsolescenza funzionale. Ecco, quindi, le sedute prodotte tra fine anni sessanta e inizi Settanta, quali i Sassi di Piero Gilardi, la Sedia UP7 a forma di piede di Gaetano Pesce, la Ron Ron Chair di Marion Baruch, il Sacco per Zanotta del gruppo Gatti-Paolini-Teodoro o la barocca Poltrona di Urano Palma, antesignana della più famosa Poltrona Proust di Alessandro Mendini.
Nel segno della provocazione e dello scandalo questi soli arredi citati evidenziano quella serie di comportamenti che da un lato «ravvivavano» con colori e materiali forme anonime e stantie, dall’altro sperimentavano un modo più personale di uso dell’arredamento. «Le preoccupazioni pratiche sono state abbandonate – ha scritto Celant in catalogo – a favore di una creatività stravagante e capricciosa, non preoccupata dell’armonia e della funzione».
La trasposizione dell’iconografia della Pop Art al design, con l’insieme dei suoi significati simbolici, è stata la prerogativa delle «narrazioni progettuali» di Ettore Sottsass, Joe Colombo e Achille e Pier Giacomo Castiglioni, bene rappresentati negli oggetti scelti da Freedman: per i primi due alcune apparecchi illuminanti e per i fratelli milanesi lo sgabello Telephone Stool «Sella».
La stessa osmosi che vide transitare suggestioni e idee dalla Pop Art al mondo del design, si verificherà con l’Arte Concettuale e l’Arte Povera. Ciò che differisce è il contenuto politico e ideologico del quale il designer si sentirà investito e che riguarderà la critica severa alla società dell’opulenza e dello spreco. In stretta relazione con i movimenti di protesta del Sessantotto i giovani architetti usciti dalle università – in particolare quelle di Firenze e Torino – orienteranno il loro operare nella messa in discussione delle tecniche della composizione dell’oggetto, della sua destinazione, collocazione e produzione.
Freedman ha selezionato con cura una serie di prodotti emblematici di quella stagione. Si va dagli algidi mobili quadrettati di Superstudio (tavolo Quaderna 2660, Prototype Cube), alla lampada in metallo Arcangeli Metropolitani di Ugo la Pietra, dalla Poltrona con poggiapiedi Mies di Archizoom Associati, alla Lampada da tavolo B.T.2 di Studio A.R.D.I.T.I.
Le ultime pagine del libro-catalogo contengono una serie di brevi interviste rilasciate nel 2018 a Cindi Strauss da alcuni designer radicali. Con efficace sintesi Lapo Binazzi di UFO spiega che nel movimento del design Radicale c’erano differenti modi di esprimersi, ma tutti condividevano «la stessa energia e la stessa idea di utopia»: quella che i loro oggetti ancora emanano e che attrasse Dennis Freedman.