Antonin ha una risposta a ogni rimprovero, sa come replicare, quali tasti toccare, come modulare le sue battute in un’arte della fuga che si fa tattica esistenziale. Così con la sorella, Solveig (Larissa Corriveau) quando gli ripete a ogni incontro, e persino se gli parla degli occasionali amanti, quanto è delusa dal suo atteggiamento. Con la moglie, Églantine (Evelyne Rompré), paziente e disponibile di fronte i suoi silenzi e tradimenti, e con la donna delle imposte, Rose (Kathleen Forteen) che gli ricorda implacabile i suoi debiti e doveri. I pensieri di Antonin sono risucchiati da Cassiopée (Eve Duranceau), da cui è attratto perdutamente. Ma chi è Antonin Un fuorilegge? Un filosofo? Un astuto manipolatore? O piuttosto un dandy – come preferisce chiamare il personaggio del suo nuovo film – a cui dà vita Maxim Gaudette, attore iconico della scena, del cinema e della televisione québécoise – Denis Côté? Titolo Hygiène Sociale, che non riguarda la pandemia, anche se è stato girato adesso è un progetto che il regista canadese ha pensato, titolo compreso, nel 2005. E così la sua forma, una «teatralità» in movimento nello spazio della natura dove gli attori ripresi in lunghi piani appaiono distanti – e distanziati. Li ascoltiamo nei loro incontri, nei duetti che li oppongono, tableaux vivants di un tempo che racchiude il passato, un diciassettesimo secolo senza costumi, lasciando risuonare la contemporaneità. La parola su cui lavora Côté è lo spazio che permette a ciascun personaggio di vivere, sul confine di arti e linguaggio, e di rendere la teatralità invenzione cinematografica spostando il punto di vista narrativo – e dello spettatore – in una universalità di sentimenti, intuizioni, rapporti umani che trovano espressione nella leggerezza di una commedia.

Côté, québécois, regista di punta del cinema indipendente e di ricerca internazionale è un inventore di mondi e di forme, e con Hygiène Sociale – presentato alla Berlinale online nella sezione Encounters, e premio della giuria – conferma il suo desiderio di sorprendere la forma cinema da ogni prospettiva. Ne parliamo tra il Canada e l’Italia su zoom.

«Hygiène Sociale» ci porta su un terreno in cui la forma cinematografica incontra il teatro, la letteratura, segnando un nuovo passaggio nella sua ricerca.
È un progetto che avevo lì da un po’, ho iniziato a immaginarlo qualche anno fa, era il 2005, mentre ero in residenza a Sarajevo. Studiavo molto le questioni riguardanti la guerra nel Balcani e leggevo Robert Walser, la sua prosa e le atmosfere dei suoi racconti tornano nel film. Cercavo qualcosa che mi permettesse di lavorare tra il teatro e la letteratura utilizzando dialoghi o monologhi con ironia, e che mi portasse nel passato ma senza connotazioni temporali evidenti. Volevo soprattutto che questo incontro tra diversi linguaggi fosse il più cinematografico possibile, non mi interessava rinchiudermi in un stanza, e nemmeno puntare a un unico elemento che fossero la parola o i costumi. La scommessa per me era muovermi nel diciassettesimo secolo mettendolo in dialogo con il presente. Se avessi immaginato un film in costume tradizionale, e con un budget molto alto, non avrei mai avuto la libertà di sperimentare che mi sono preso qui.

I personaggi si muovono all’aperto tra boschi e prati, e nonostante il ritmo del dialogo «teatrale» vivono pienamente dentro al cinema.
Era appunto ciò che desideravo di più, il fatto di muovermi tra possibilità formali diverse senza che una prendesse il sopravvento sull’altra. La messinscena di Hygiène Sociale cerca questi passaggi, lavora su una forma aperta che tra l’altro l’assenza di un riferimento temporale preciso rende ancora più fluida. Abbiamo girato durante la pandemia ma ripeto tutto era lì, non abbiamo dovuto cambiare nulla in un soggetto scritto nel 2005 che immaginava dialoghi a distanza e incontri all’aperto, del resto il titolo lo dice bene: parla di Hygiène Sociale. Ancora adesso cerco di capire cosa significa questo film rispetto agli altri nella mia ricerca, è sicuramente un momento di divertimento, ci siamo divertiti a farlo e il modo con cui abbiamo lavorato è stato per gli attori un regalo perfetto – loro sono stati meravigliosi. Non vuole essere il manifesto di qualcosa, il soggetto del film è l’ascolto della parola tenendo lontana la macchina da presa. Non è un film di psicologia ma è appunto sulla parola. Il pubblico ascolta gli attori ma li guarda sempre da lontano.


La parola è dunque il centro di questa narrazione?
Antonin, il protagonista, è qualcuno che sta cercando un ruolo per ritrovare un linguaggio di sé – ed è qualcosa che Maxim Gaudette che lo interpreta cerca di esprimere non solo con la parola ma anche col corpo. Lui è un uomo intorno al quale ruotano con diverse motivazioni cinque donne, è un ragazzino e loro aspettano che finalmente cresca. La sorella, la moglie, l’amante, la donna delle imposte rappresentano per Antonin dei «doveri» a cui cerca di sottrarsi deludendole sempre. Non so se vedo in lui un mio alter ego, mi piace però quel suo lato un po’ indolente e anche romantico, di chi non si cura troppo del mondo pur volendone fare parte. Lo vedo come un dandy spensierato, qualcuno di cui oggi c’è molto bisogno. C’è poi il mio desiderio di fare un film senza una «storia» che oggi sembra essere così necessaria. Non dobbiamo lavorare solo in termini narrativi di inizio/fine, non ci deve essere per forza un finale. Non è una provocazione, è più il tentativo di restituire un ruolo all’immagine pensando con il cinema.

Il titolo, «Hygiène Sociale» da cosa arriva? Impossibile non pensare alle dinamiche sociali provocate in questo ultimo anno dalla pandemia.
Per me Hygiène Sociale è soprattutto un film sulle relazioni, e in questo senso parla del nostro tempo. Oggi le relazioni vivono molto sui social media – e il Covid ha amplificato questa tendenza. Non ci si vede ma le persone hanno un’opinione su qualsiasi cosa e si sentono motivate a esprimerla di continuo. La base delle relazioni è avere una «buona reputazione» che poi diventa un alto gradimento social in un contesto nel quale si è costantemente osservati e giudicati, e si ama o si detesta qualcuno che non si è mai conosciuto. A me giudicare non interessa, penso che sia importante trovare un equilibrio nei rapporti con gli altri, e questo dandy protagonista del film è qualcuno che non dà mai giudizi, anzi forse li subisce. Come persona e regista non amo i social media, non voglio definire Higiène Sociale un film sui social anche se lo è seppure in modo obliquo. Non filmo mai i miei soggetti frontalmente, preferisco spostare la riflessione nel fuoricampo: ecco dunque qualcuno che vive nel XVII secolo e ha problemi di reputazione. Tornando alla pandemia quello che entra nel film – anche il titolo che mi piace moltissimo esisteva già – è forse il mio bisogno di sfuggire un po’ alla realtà che stiamo vivendo con  una commedia.