In tempi in cui la sceneggiatura è una forma di ossessione, se non quasi una dittatura, dove solo il plot, lo script, i dialoghi, l’azione contano, c’è ancora chi, ostinatamente, si prende la libertà di credere nelle immagini, nel paesaggio, nei volti degli attori e nelle atmosfere. E solo attorno a quelle, con piena fiducia, costruisce un film. Per giunta (ma non è una regola) girando in sedici millimetri, lasciando intatte le imperfezioni, la polvere, desaturando al massimo il colore alla ricerca di un senso di evanescenza. Provando a costruire un universo, un immaginario. Facendo, insomma, del cinema. Per la prima volta in Italia, Denis Côté parla del suo Ghost Town Anthology, in concorso lo scorso febbraio alla 69.a Berlinale e ospite del Science+Fiction Festival che si è concluso due giorni fa a Trieste. Una storia di fantasmi, forse. Più che altro l’idea di una comunità, con le sue paure. E minacce. Reali e immaginarie. Un film di segno evidentemente politico che si sposa benissimo con la realtà dei nostri giorni. Quando a Irénée-les-Neiges, villaggio sperduto nelle nevi del Quebec, il ventunenne Simon si toglie la vita lanciandosi in automobile contro dei blocchi di cemento, il paese (251 anime) è profondamente scosso. Come in Boris sans Beatrice c’è un lutto da elaborare e ognuno cerca il proprio modo per affrontare la tragedia. Ma tutti, ciascuno a suo modo, sono restii all’idea del cambiamento che incombe, esattamente come quelle sinistre figure, scure e misteriose, presenze dell’aldilà che si manifestano in paese e dalle quali tutti si sentono minacciati.

Denis Côté

«ANCHE in Quebec, come nel resto del mondo, – spiega Côté – abbiamo avuto qualche breve episodio di migrazione. Alcuni haitiani, nigeriani, messicani, sono entrati illegalmente dagli Usa un paio di estati fa. Ma stiamo parlando di sei-settemila persone, una cosa ridicola. Un fenomeno isolato. Eppure, quando è stata data la notizia, si è scatenato il panico e in molti hanno reagito in modo per lo meno curioso: ’Oh mio dio, perderemo le nostre certezze, il nostro comfort’, dicevano. E non erano voci che venivano da un partito di estrema destra, perché da noi neppure esiste l’estrema destra, il centro-destra è il peggio che abbiamo. Così si è fatta strada in me l’idea di fare un film sull’ordinaria xenofobia. Non razzismo, ma «ordinaria xenofobia». Una specie di horror che parlasse della paura di qualsiasi cosa sia diversa da noi». «Vorrei spiegare ancora qualcosa sul mio Paese. In Quebec – aggiunge – parliamo francese, siamo 7 milioni di francofoni circondati da 400 milioni di anglofoni. Questa condizione fa sì che per forza di cose viviamo un senso di minaccia permanente, abbiamo qualche difficoltà di comunicazione con i nostri vicini, non ci integriamo perfettamente con il resto del Canada. E siamo anche alla ricerca perenne di un’affermazione identitaria. Dobbiamo costantemente definire chi siamo: di certo non siamo americani e ci piace dire che abbiamo qualcosa di europeo. Forse per queste ragioni sentiamo forte il senso di comunità e qualche volta forse ci comportiamo come gli abitanti del villaggio. Il mio, ovviamente, non vuole essere un giudizio, ma più lo vedo e più penso che il mio film sia profondamente connesso al Quebec, dove in fondo le persone hanno paura di diventare fantasmi». Perché non un horror in senso «classico»? «Da giovane ero un’enciclopedia vivente di cinema horror. La mia formazione, come tutti quelli della mia generazione, è avvenuta in cantina con le videocassette. Poi, quando ho cominciato a studiare cinema sono arrivati Godard, Pasolini, Fassbinder, Cassavetes. A quel punto snobisticamente ho messo da parte la mia prima formazione, ma evidentemente il cinema di genere mi è rimasto dentro. Eppure non mi interessava fare un horror canonico, seguendo i codici e i cliché. A dire il vero non amo troppo gli universi troppo distanti dal reale. Volevo stare con un piede dentro e uno fuori dalla realtà. La struttura doveva sembrare quella di un normalissimo dramma sociale, con una persona morta e la gente ha difficoltà a comunicare e affrontare questo lutto, salvo poi prendere una direzione diversa, mescolando realismo e soprannaturale».

DODICESIMO titolo nella già vasta filmografia dell’autore, Ghost Town Anthology si rifà liberamente al romanzo di Laurence Olivier (docente di letteratura, omonimo dell’attore), «un libro molto poetico e frammentario – secondo Côté – senza una linea narrativa, ma solo un mucchio di personaggi», mentre i riverberi dell’immaginario visivo strattonano in mille direzioni diverse: dal Lynch di Twin Peaks a Pasolini (Teorema), da Robin Campillo (Les Revenants) a Nashville di Altman. «Riferimenti inconsapevoli» in un processo di scrittura libero, aperto. «Lo giuro – conclude – non so mai come vanno a finire i miei film. In generale non amo la fase di scrittura, adoro riscrivere il film in moviola. Mi piace improvvisare con quattro attori, una macchina. Ma, certo, è complicato quando lavori nell’industria come in questo caso. Lo so, bisogna scendere a compromessi e seguire delle regole. Allora mi prendo la rivincita coi miei piccoli film indipendenti. Magari non sono un vero filmmaker».