Il programma T4 doveva provvedere alla soppressione dei disabili. Con esso i nazisti sperimentarono le camere a gas, che poi avrebbero utilizzato in modo industriale per sterminare il popolo ebraico e gli zingari. L’eliminazione dei disabili, gestita da personale medico professionista, veniva condotta al riparo dallo sguardo del pubblico, soprattutto da quello dei loro parenti. Ma il programma, viceversa, era propagandato e giustificato: con proclami, manifesti, discorsi, trasmissioni, articoli sui giornali: ogni disabile era una bocca in più da sfamare a spese del resto della popolazione, ostacolandone il cammino verso la meta comune.

Si calcolava persino quanto pesasse sui conti nazionali ciascuna di quelle bocche. Così, sotto il nazismo, il popolo tedesco si assuefaceva, un po’ per volta, all’idea che le persone «inutili», che erano «un peso» per lo Stato, o dannose per il radioso futuro della sua razza e della sua cultura, dovessero essere eliminate. E che fosse giusto farlo. Senza accorgersene? No. Certo né le soppressioni «cliniche» dei disabili, né le fucilazioni di massa degli ebrei, né l’attività industriale dei campi di sterminio si svolgevano sotto i suoi occhi. Ma tra questo e sostenere che non ne sapesse niente, e che non trovasse tutto ciò necessario, se non «normale», ci passa.

A me non piace l’uso dei termini nazista o fascista, o di loro equivalenti, per stigmatizzare cose del tutto differenti. Quanti nuovi Hitler abbiamo avuto negli ultimi anni? Milosevic, Saddam, Bin Laden, Gheddafi, Al Baghdadi. Diventati tali, in genere, solo dopo che si era deciso di eliminarli. Prima andavano benissimo. E quanti nuovi fascismi? Con l’ovvio rischio di consumare parole e riferimenti, rendendoli progressivamente meno espressivi. Ma per quanto riguarda le politiche di sterminio, il rigetto di questo abuso linguistico non può esimerci dal prendere atto che noi in Europa (e certo non solo in Europa; ma cominciamo da casa nostra) stiamo gradualmente scivolando lungo un percorso che dovrebbe allarmarci. Stiamo varando e legittimando una politica di sterminio dei profughi che cercano una via di salvezza nei nostri paesi.

Anche noi teniamo lontane quelle loro morti e ce ne accorgiamo solo quando «bucano lo schermo» per il loro numero. Ma intanto c’è, sia nelle istituzioni che nell’«arena» politica, chi le giustifica – e chi se ne fa un vanto – con motivazioni che ricordano il programma T4. Salvarli, con Mare Nostrum, costa troppo. Non possiamo permettercelo. Meno che mai può permetterselo l’Europa, alle prese con le strette di bilancio delle sue politiche. Al massimo si può finanziare un programma come Triton, che ha come scopo non salvare quei profughi, ma respingerli. In fondo al mare. E poi, diciamola tutta: se li salviamo ne incoraggiamo altri a provarci ancora (in realtà non «incoraggiamo» nessuno, come dimostrano le statistiche: con Triton, che li vuole mandare a fondo, ci sono più sbarchi che con Mare Nostrum, che cercava di salvarli). Ci provano e ci proveranno perché sono esseri umani che non hanno altra scelta che tentare uno sbarco in Europa. A qualsiasi costo; anche quello di una morte atroce, del cui rischio non sono certo ignari.

Ma se li salviamo, poi ce li ritroviamo sul nostro «suolo», nelle nostre città, magari nascosti in una fabbrica abbandonata, sotto un viadotto, in uno scantinato. Sono sempre di più: non possiamo permettercelo. Ed ecco riemergere, nel discorso politico, la tesi della «popolazione superflua», che pesa sui nostri conti senza contribuire a sostenerli, come ripete ogni giorno l’astro nascente Matteo Salvini. E magari molti di quei disperati lavorano come schiavi in un campo, in un cantiere, o nel retrobottega di un ristorante; come molti ebrei, anche loro «superflui», che prima di essere mandati a morte venivano impiegati nelle fabbriche tedesche. Ma quella massa di disperati è una presenza che comunque deturpa il decoro di una città, di una strada, di un paese. E poi, sono troppi. Come liberarcene? Puntiamo il nostro sguardo sui 140mila che sono sbarcati l’anno scorso in Italia, e che poi sono stati in gran parte «aiutati» – in via ufficiosa; i trattati non lo permettono – a raggiungere altri paesi, dove vengono trattati (ancora per poco) un po’ meglio. Ma chiudiamo gli occhi di fronte a quella che ormai è una «nazione» fantasma: sette milioni di profughi che dall’Ucraina al Medio Oriente, dall’Eritrea alla Libia, dal Niger al Pakistan, premono sui nostri confini; o sui confini dei paesi che hanno confini con noi.

Che ne sarà di loro? Che cosa ne facciamo? Torneranno nei loro paesi a guerre finite? No, perché quelle guerre – che non sono più tali, ma uno stato di belligeranza permanente senza più confini, innescato molte volte dall’Europa e dalla Nato – non sono destinate a finire presto. Ogni nuovo intervento non fa che produrre nuovi fronti di guerra: ora anche al nostro interno. Poi, perché i loro paesi, dove già conducevano una vita grama, ora sono completamente distrutti. E là non c’è più posto per loro. Gran parte di quella «nazione», prima o dopo, cercherà di sfondare le mura della «fortezza Europa». Accettarli in gran numero? Vorrebbe dire cambiare completamente gli assetti delle nostre società: predisporci a vivere in una vera comunità multiculturale. Altro che sforare il 3% di Pil! Inconcepibile. Anche se forse un’accoglienza decente potrebbe creare, tra le comunità espatriate, le basi sociali e politiche di una riconquista dei loro paesi di origine alla pace e alla democrazia. Che non hanno molte altre strade per potersi affermare. Allora respingerli, moltiplicando per venti o per cento gli sforzi bellici messi in campo già oggi con Frontex? Sarà guerra. Contro una «nazione» di disperati. In parte la stiamo già facendo. Abbiamo finanziato trattati di respingimento, campi di internamento permanente, carceri dove si viola la dignità umana e si tortura, pattuglie ben armate di dissuasione, muri, reti e steccati alti cinque metri. Per tenerli lontano dai nostri sguardi. Vivi o morti.
Ma se questo stiamo facendo con poche centinaia di migliaia di profughi in fuga da guerre, dittature, fame e schiavitù (nessuno di loro si illude più di trovare in Europa l’Eldorado), che cosa faremo con gli altri milioni ammassati nei campi profughi del Medio Oriente? Contiamo forse di rinchiudere tutta la popolazione «superflua» di quella regione in una o in tante «strisce di Gaza», dove tener imprigionate intere comunità senza più patria? Bombardandoli e massacrandoli di quando in quando con il pretesto di stroncare gli attentati, isolati ancorché feroci, generati dalla disperazione, o perpetrati in suo nome? Attentati che sicuramente si moltiplicheranno, soprattutto nel cuore dell’Europa. E non avrà tutto ciò dei costi spaventosi: umani, sociali e anche economici? I costi della guerra.

Ma chi o che cosa ci sta sospingendo – sempre più indifferenti, ma ignari certo no – verso tutto ciò? La cultura «ragionieristica» dell’Unione europea: disposta a mandare in malora un intero paese, come la Grecia, per avere indietro i soldi prestati a suo tempo a un governo di malfattori. O a sacrificare i contatti civili con l’Ucraina, sostituendoli con puri rapporti militari, gestiti dalla Nato e dalle milizie, queste sì, naziste, per aver lasciato che a salvarla dal default fosse Putin. O a sostituire Mare Nostrum con Triton, cioè il salvataggio di migliaia di esseri umani con la loro morte in mare, perché il primo costa troppo. Alla «colpa» di essere ebrei o zingari abbiamo sostituito quella di essere nati in paesi resi invivibili. Ma poco per volta, ci abituiamo a tutto. Sembra che si parli di denaro. Invece si parla di sterminio.