C’è un orizzonte emozionale di smisurata amarezza, di afflizione e sconforto per i viali dall’austerità rotta, nelle cave polverose, tra le putride forre, sulle mura decadute di castelli malati e per i bui corridoi di torri decadute trasformate in carcere per folli senza anima. Si aggirano per questi luoghi nefasti cavalieri dissennati, maghi-mostro dalla lovecraftiana testa di seppia, uomini glabri e pallidi dal volto squarciato per mostrare un orribile sorriso zannuto, spettri letali di antichi eroi, crudeli draghi sputafiamme e creature immani e demoniache. A Boletaria, terra maledetta, c’è il corpo defunto del fantasy convenzionale, trasformato in terrificante morto vivente dal genio oscuro di Hidetaka Miyazaki, che nel 2009 con il suo Demon’s Souls inventò un nuovo modo per mettere alla prova i videogiocatori, tormentandoli con sfide indicibili, con l’incubo continuo dell’estinzione del proprio personaggio e nel contempo insegnando loro che non c’è davvero nulla di insuperabile se si persevera, si pazienta, si riflette e non si cede alla paura.

Demon’s Souls torna per inaugurare in esclusiva la PlayStation 5 in un rifacimento totale che è tuttavia solo superficiale, perché permangono intatte quasi del tutto le meccaniche ludiche e la forma dell’originale. Ma quanto splendore, sebbene si tratti di una magnificenza tetra e spaventosa, nella nuova superficie estetica data al capolavoro di Miyazaki dai «restauratori» di Blue Point, specializzati in operazioni rigorose di «remake» e già responsabili di quello di un’opera d’arte sul vuoto, sulla morte degli dei e dell’amore che è Shadow of the Colossus di Fumito Ueda.

Demon’s Souls quindi risorge, l’opera in apparenza meno scontata e per questo più stupefacente per inaugurare la nuova generazione di Sony, videogioco un tempo germinale e oggi terminale che ha raggiunto lo stato di culto nel corso del tempo ed è in grado da sola di muovere milioni di appassionati verso la PlayStation 5, che con questo remake dimostra tutta la sua potenza tecnologica, tranne quella del Dual Sense, utilizzato sotto tono rispetto alle sue potenzialità. Ciononostante sono sufficienti l’impatto sonoro dell’audio tridimensionale che compone una sinfonia terrorizzante ed esaltante di rumori e rarissima musica, la velocità stupefacente dei tempi di caricamento e il suddetto oscuro fulgore visivo per trasformare il rinato Demon’s Souls in una nuova esperienza, antica e avveniristica insieme, nella promessa di chissà quali venture meraviglie videoludiche.
Così ancora una volta, o per un’esaltante e minacciosa prima avventura, ci avventuriamo per l’afflitta Boletaria leggendo la sua storia tra le architetture infrante, interpretando il suo passato nei panorami interrotti dalla rovina.

Ci armiamo di spade, lance o archi, apprendiamo devastanti incantesimi e viaggiamo per una lunga avventura sinistra, morendo e rinascendo innumerevoli volte, perché non c’è pace per il giocatore in Demon’s Souls, pensato per «uccidere» ma soprattutto per essere sconfitto, persino ingannato, con un poco di coraggio e di astuzia. Sono possibili dei sotterfugi assai poco cavallereschi talvolta, come avvelenare nemici altrimenti quasi imbattibili e vederli estinguersi lentamente a distanza di sicurezza o colpire da lontano un drago rosso, protetti dai merli di una fortezza, con una freccia dopo l’altra, finché non cade. Si tratta comunque di poche situazioni, perché per giungere alla fine di questa ermetica epopea dovremo soprattutto dimostrare eroismo e abnegazione. E non temere mai la ripetizione e il fallimento, considerando che solo tramite questi impariamo davvero a giocare e a sopravvivere, assaporando l’eventuale trionfo con un’estasi rara nel videogioco, l’illusione gratificante di una vittoria che si pensava impossibile.

È innegabile che chi ha sconfitto l’originale e negli anni la trilogia di Dark Souls, Bloodborne e Sekiro (questo diverso, ma affrontabile con una simile forma mentis), quindi tutte le altre opere di Miyazaki e From Software, possa trovarsi più a suo agio tra le asperità del Demon’s Souls rifatto dai Blue Point, trovarlo immediatamente più accessibile, almeno fino a quando, per eccesso di superbia e sicurezza, non perde la vita e «30000 anime» trafitto alle spalle da uno scheletro armato di spada spezzata o scivola nel vuoto di un baratro per avere messo un piede in fallo nel percorso di un’impervia passatoia. Ma non cediamo, perché per le asperità di Boletaria ci conduce un dolce, disperato amore.