Dèmoni celati da una apparente immobilità: una novella di mare di Mathijs Deen
I grandi racconti di mare riescono talvolta a catturare quell’atmosfera di sospensione generata dall’isolamento dei personaggi, che appaiono presi in uno spazio paradossalmente sconfinato, e spesso intrinsecamente minaccioso; questa invisibile clausura genera una tensione drammatica inconfondibile, alla quale molti hanno saputo attingere. Fra questi, l’olandese Mathijs Deen in La nave faro (traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo, Iperborea, pp. 143, € 15,00) che offre spunti eccentrici rispetto alla tradizione del genere. Se infatti viene naturale ascrivere questa novella al filone stabilito dai Racconti di terra e di mare di Joseph Conrad – dai quali eredita soprattutto una certa tendenza alla simbolizzazione degli eventi narrati – la brevità, la rapidità, e la crescente tensione narrativa delle pagine di Deen sembrano suggerire piuttosto un riferimento al giovane Simenon «marinaresco» dei Pitard, e del Passeggero del Polarlys.
La nave faro del titolo è la «Texel», il cui equipaggio è costretto a una mansione singolare e ingrata: stare in mare, senza mai andare per mare. L’imbarcazione è infatti ancorata in acque alte con il compito di segnalare la rotta ai naviganti. I marinai vegliano, trascrivono osservazioni meteorologiche, e tengono in funzione la luce del faro. Il turno a bordo dura diverse, monotone settimane, e a parte il comandante, nessuno sembra gradirlo. Qualcosa cambia quando, dopo l’approvvigionamento, il signor Lammert – il cuoco della nave e protagonista della prima parte del racconto – si presenta a bordo con un capretto in braccio. Ha intenzione di macellarlo, dice a tutti (e forse anche a se stesso), per preparare poi il gule kambing, un piatto indonesiano della sua infanzia.
Il narratore si insinua con eleganza mimetica nei ricordi dei marinai, e se da quelli del cuoco riaffiora il sanguinoso passato coloniale dell’Olanda (e poi, in un brevissimo ma decisivo passaggio, il frammento-chiave che suggerisce una spiegazione della sua repentina «affezione» per l’animale), nei pensieri del cambusiere, del timoniere, del mozzo, emergono solitudine, frustrazione, nevrosi, e forse follia.
Per la sua novella-parabola Deen sceglie una voce chiara, precisa, lasciando alle immagini suggestive che ha selezionato il compito di avvincere il lettore. La nave faro potrebbe essere ambientato oggi come nell’Ottocento, e l’imbarcazione «immobile» sulle acque suggerisce sfumature allegoriche quasi ovvie. La presenza in nave della bestia – come una visita spettrale la cui fine viene ineluttabilmente procrastinata, come in sogno – smuove via via paure e emozioni sepolte, fino a causare un evento irreparabile che chiude di fatto il racconto, in un passaggio narrativo rapinoso e inquietante che si stempera, con inattesa delicatezza, nell’ultimo dialogo, ambientato non a caso sulla terraferma.
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