«In quel tempo portavano il quadro Il Demone a Pietroburgo per la mostra di Mir Iskusstva, e Michail Aleksandrovich, nonostante che il quadro fosse già esposto, ogni giorno sin dal mattino presto lo ridipingeva, ed io con orrore vedevo ogni giorno un cambiamento. C’erano giorni in cui Il Demone era molto orrido, e poi di nuovo apparivano nell’espressione del volto del Demone una profonda tristezza e una nuova bellezza. Michail Aleksandrovich diceva che allora il Demone non era abbattuto, ma volava e alcuni vedevano il volo del Demone»: in quel volto, che di giorno in giorno mutava, secondando le più contrastanti passioni del suo creatore, l’artista Michail Aleksandrovich Vrubel’ andava raffigurando la propria insoddisfazione di lunatico atrabiliare. «12 marzo (…) Anche stavolta – annota sempre la cognata Ekaterina Ivanovna Ge nel suo diario – prima dell’apertura della mostra egli ha dipinto Il Demone e dice che adesso il Demone non è abbattuto, ma vola, e che adesso dipingerà un altro Demone e lo manderà a Parigi».
La follia di Vrubel’ non s’era manifestata d’improvviso. Già alcuni anni prima, egli aveva cominciato a essere violentemente umorale. Alle volte s’entusiasmava e la sua eloquenza s’espandeva in un torrente interminabile di frasi: ciò avveniva fino a quando nessuno lo contraddiceva, perché allora l’artista s’incolleriva, abbandonandosi a terribili eccessi. Ne fece le spese un modesto cocchiere, picchiato per aver espresso simpatia nei riguardi delle rivolte studentesche. Vrubel’ «si eccitava – scrive la sorella Zabela –, gli si arrossava il collo, ed era pronto ad azzuffarsi con chi lo contrastava». I familiari e gli amici avevano conosciuto un uomo misurato nelle parole, taciturno quasi; adesso invece l’uomo era diventato d’una loquacità quasi imbarazzante.
Gli antichi astrologi conoscevano l’alternarsi di questi stati dell’animo e l’attribuivano agli influssi funesti di Saturno. Il saturnino non era né triste né ilare ma era ora l’una ora l’altra cosa. Come nei deserti, cui somigliava il pianeta dal quale questo genere d’individui era così tirannicamente governato, non esisteva per loro un clima temperato, ma l’arsura del giorno si succedeva al gelo profondo della notte. Nei momenti d’euforia era come se un refolo primaverile attraversasse il mondo per rivestirlo dei più variopinti colori, sembrava allora che tutta la terra fosse prodiga di doni inesauribili e che lo spirito non avesse che da percorrerla, come un torrente scintillante che rinfranga l’illimitata dovizia di cieli luminosi; ma codesto non era che un aspetto del carattere del saturnino. Allo stato d’esaltazione tosto succedeva lo sconforto e il malinconico si trovava a poter dire, come il principe Amleto nel secondo atto: “io ho ultimamente, ma perché non so, perso tutta la mia allegrezza, abbandonato ogni costume d’esercizi; e per vero io son così aggravato nel mio umore che questa vaga fabbrica, la terra, sembra a me uno sterile promontorio».
D’uno scolorirsi dell’universo parla anche Il Demone seduto (1890), uno fra i capolavori di Vrubel’, col suo Satana possente incastonato fra le rocce, le cui membra vigorose accennano al moto, e così l’energia contratta delle dita, ma nei cui occhi splende fredda l’atonia della volontà. Il pittore si dedicò più volte allo stesso soggetto: raffigurazioni d’angeli impotenti, dagli occhi grandi come quelli dei santi delle antiche icone, ma la cui espressione assorta fa pensare piuttosto alle tele di Gustave Moreau. Il suo Demone volante (1899), ultima stazione caucasica del Satana di Milton, discende egualmente da Lermontov e da Baudelaire, sebbene alle sue immense ali si convenga ancor meglio il verso di Shelley «Hung mute and moveless o’er yon hushed abyss». Di esse Valerij Brjusov scrisse «scintillio di pavone dalle ali spiegate» e, in effetti, nel Demone caduto (1902), a vederle così atterrate e infrante accanto al corpo esanime del loro padrone, è a un mucchio di scintillanti gioielli che vien fatto di pensare, accatastati in una grotta dopo un saccheggio. Alma-Tadema, coi suoi rosei imperatori dalle carni di pesca soffocate dai fiori, non concepì mai un’immagine di decadenza che fosse paragonabile alla fosca grandezza del quadro di Vrubel’!
Non fu solo Brjusov, d’altra parte, a notare lo splendore minerario dei quadri dell’artista, ma anche lo scrittore Vasilij Rozanov che paragonò il Demone a «un non so che di spiritualizzato minerale». Una flora fossilizzata sembra cingere il Demone seduto, simile al prato d’ametista che in Lillà (1900) determina la natura feerica del paesaggio.
Forse che l’occhio saturnino dell’artista si sentiva fatalmente attratto verso un mondo geologico, insieme luminoso e inerte, come il giovane protagonista del racconto hoffmanniano Le Miniere di Falun? Sappiamo che Vrubel’ amava pazzamente le gemme e che si recava spesso alla cassa di prestiti di Rozmital’skij e Dachnovich per ammirare le stoffe orientali e le pietre preziose esposte in vetrina. Talora i proprietari gli consentivano di prenderle fra le mani e allora Vrubel’ cominciava a «versarle da un palmo all’altro, gioendo delle inattese combinazioni cromatiche». Questo gesto, quasi infantile, sembrava ripetersi ogniqualvolta il pittore, insoddisfatto del risultato, cancellasse furiosamente la tela, lasciando che i colori sprofondassero nuovamente nella loro caotica indeterminatezza prenatale, si facessero cascata rutilante, incerto fermento di tinte.
La pazzia di Vrubel’ aveva un termine clinico: sifilide. Ma non era questo il nome col quale i medici dell’Ottocento evocavano l’antico Demone della Malinconia? Lo stesso Fiodor Oussoltsev, che a Mosca ebbe in cura il pittore, aggiungeva alla valutazione dei colleghi che le sue particolari condizioni erano aggravate dalla complessione atrabiliare comune a tutti gli artisti. A Riga gli avevano consigliato d’accanirsi nel lavoro per scacciare lo spirito saturnino che sembrava possederlo. In queste diagnosi, salute fisica e morale andavano di pari passo, giacché la sifilide, come il delirium tremens, era tenuta per inevitabile conseguenza della vita sconsiderata che la bohème intellettuale conduceva senza risparmio.
Frattanto Vrubel’ s’ammalava sempre di più. Gli amici dovevano sottrargli i quadri perché, spinto da complessi paranoici, non li rovinasse irreparabilmente, come sarebbe forse accaduto della Gerusalemme liberata, il capolavoro del poeta che più di tutti costituì il paradigma del genio malinconico. Anche Vrubel’ non faceva che modificare incessantemente il suo lavoro, consumato dai sensi di colpa. Le allucinazioni lo tormentavano. Un giorno disse che dalle fessure delle sue tele fuoriuscivano onischi e ogni altra sorta di creatura ripugnante.
Ma mentre la crisalide terrena s’insteriliva in una vuota buccia, la Fama, anima eterna dell’artista, fuoriusciva rigogliosa. L’Art Nouveau s’andava oramai affermando; Vrubel’ ne era stato uno degli interpreti più personali. La sua Primavera (1894) aveva certo molto di Mucha, la capigliatura delle sue donne, fulva e abbondante intorno a visi androgini come in Musa (1896) richiamava Rossetti, un quadro quale Al calar della notte (1900) non sarebbe potuto esistere senza l’esempio di Von Stuck, ma ciò non aveva nociuto in alcun modo all’indipendenza dell’artista che, per la qualità cristallina, mineraria delle sue composizioni, per il vigore del disegno, poteva collocarsi fra gli interpreti più eminenti e originali del movimento. Nemmeno l’influenza dell’Arts and Crafts fu subìta passivamente: nelle ceramiche ch’egli realizzò negli ateliers di Abramtsevo non v’è l’ombra della leziosità di William Morris: la fantasia decorativa vi si riversa invece copiosa, abbondante, violenta alle volte, con un non so che di barbarica opulenza. Questa fiamma visionaria si ritorceva, però, sempre più contro di lui, consumandone l’esistenza fra immagini paurose. Negli ultimi tempi era divenuto quasi cieco. Quando il suo corpo mortale, stanco e consunto, si spense, Vrubel’ era uno fra i più grandi pittori della Russia.