Trovandosi lunedì sulla porta di casa un funzionario comunale, accompagnato da decine di poliziotti, con in mano un ordine definitivo di sfratto, Lital era stata presa dall’ansia ed era salita per qualche minuto sul tetto di casa insieme al marito Mahmoud Salhiye che minacciava di darsi fuoco ma di non abbandonare l’abitazione in cui ha vissuto e prima di lui suo padre. Ebrea israeliana di Rishon Lezion, dopo essersi innamorata di Mahmoud ed averlo sposato, Lital a Sheikh Jarrah ha vissuto una vita serena assieme ai parenti e ai vicini di casa palestinesi. La minaccia di sgombero comunque era sempre nei suoi pensieri. Lunedì vedendo i poliziotti in assetto antisommossa non si è fatta illusioni. Ha capito che la sua casa stavolta non si sarebbe salvata e che, dopo anni di battaglia con il comune di Gerusalemme, le ruspe l’avrebbero ridotta in macerie. «Il comune è antiarabo, questa è la realtà. Faccio i bagagli, così se la polizia verrà ad espellerci non getterà tutto in strada», aveva detto al resto della famiglia.

Non sappiamo se Lital e Mahmoud Salhiye siano riusciti a salvare qualcosa ieri poco prima dell’alba quando, sotto una pioggia battente, decine di poliziotti hanno fatto irruzione nella loro casa e li hanno cacciati via. Mahmoud e un’altra ventina di persone, tra cui cinque attivisti israeliani, sono stati arrestati, non si sa per quale motivo, e rilasciati nel pomeriggio. Nelle stesse ore le ruspe inviate dal comune hanno fatto a pezzi la casa provvedendo poi a caricare le macerie su autocarri che le hanno fatte sparire. Il comune è già pronto a costruire su quel terreno una scuola religiosa e un asilo nido. «Possono costruire cinque scuole ma la mia casa sarà sempre qui», aveva ripetuto lunedì dall’alto del tetto di casa Mahmoud con una tanica di benzina tra le mani, accanto a una bombola del gas. «La mia famiglia aveva proprietà a Ein Kerem e ce le hanno portate via, non possono espellerci ancora una volta» aveva aggiunto riferendosi al villaggio che i palestinesi furono costretti ad abbandonare nel 1948 e che in seguito divenne parte di Gerusalemme Ovest. E invece i Salhilye, dopo tre generazioni, si ritrovano ad essere di nuovo sfollati nella loro terra e cacciati via dalle loro case.

La famiglia Salhiye arrivò a Sheikh Jarrah quando Gerusalemme Est era ancora sotto il controllo giordano. Una legge israeliana degli anni ’50 sulla «proprietà degli assenti» intanto aveva dato il via al sequestro delle proprietà del nonno di Mahmoud a Ein Kerem. L’uomo era rimasto a Gerusalemme ma per il neonato Stato era «assente». La famiglia possiede l’atto di acquisto del terreno a Sheikh Jarrah che però non è mai stato regolarizzato dal catasto israeliano. E sebbene si trovi in un’area residenziale, nel 1984 il piano regolatore israeliano – esteso alla zona araba di Gerusalemme occupata nel 1967 – lo ha designato edificabile per strutture pubbliche. Per i Salhiye è cominciato l’inferno. Nel 2017, il comune ha espropriato per uso pubblico il terreno a Sheikh Jarrah. I funzionari comunali si giustificano ripetendo che la famiglia palestinese ha respinto un risarcimento adeguato. «Non vogliamo soldi, chiediamo solo che ci lasciano in pace, nelle nostre case. Ci hanno già preso tutto nel 1948», ha ribadito ad ogni occasione Mahmud. Ieri l’epilogo, che però potrebbe dare il via ad una nuova stagione di tensioni a Sheikh Jarrah dove, a poche centinaia di metri da quella che era la casa dei Salhiye, 28 famiglie palestinesi attendono da un giorno all’altro un ordine simile di sgombero e demolizione.

Mona al Kurd, la giovane divenuta simbolo della resilienza dei palestinesi di Sheikh Jarrah, in questi giorni ha portato solidarietà ai Salhiye esortandoli a non arrendersi. Sul suo volto era dipinta la preoccupazione, la sua casa è tra quelle che potrebbero essere sgomberate per prime con la forza. La vicenda di ieri forse è stata il primo atto di un’operazione più ampia. Le 28 famiglie alla fine dello scorso anno hanno respinto il compromesso offerto dalla Corte suprema israeliana che pur lasciandole nelle case dove vivono dagli anni ’50 – per disposizione delle Nazioni Unite e della Giordania – assegna ai coloni la proprietà dei terreni dove sono state edificate, sulla base di documenti risalenti a prima della fondazione di Israele. A un palestinese invece non è consentito reclamare le proprietà che aveva e che si è visto confiscare a Gerusalemme Ovest dopo il 1948.

Tremano più di tutti i Salem. Vivono barricati dentro. Aspettavano l’arrivo della polizia il 27 dicembre. Arie King, vicesindaco di Gerusalemme ed esponente di punta della destra estrema, aveva consegnato loro l’ordine di sfratto di persona, assieme al colono israeliano destinato ad occupare l’abitazione. Poi la polizia ha chiesto un rinvio. Ma è questione di pochi mesi, forse di settimane. Lunedì davanti alla casa dei Salhiye c’erano dei diplomatici europei, tra cui Sven Kühn von Burgsdorff, l’ambasciatore dell’Ue a Gerusalemme est. Il suo ufficio in un comunicato ha ricordato che gli sfratti e le demolizioni sono illegali in un territorio che, secondo il diritto internazionale, è occupato. Le parole non cambiano la realtà sul terreno. Intanto il Comitato per la pianificazione di Gerusalemme ha avanzato un progetto per la costruzione di una nuova colonia (circa 1550 case), che si chiamerà Lower Aqueduct, su terre tra gli insediamenti israeliani di Givat Hamatos e Har Homa.