Un thriller tesissimo girato secondo i principi del cinema veritè, Citizenfour è il primo film su Edward Snowden, ed è diretto dalla prima persona che l’informatico americano ha contattato quando ha deciso di rendere pubblici i documenti sulla sorveglianza segreta della National Security Administration: la documentarista Laura Poitras. Ambientato in gran parte nella stanza d’albergo di Hong Kong dove, a inizio giugno 2013, Snowden ha incontrato Poitras e i giornalisti Glenn Greenwald e Ewen MacAskill, e ha consegnato loro i files. Citizenfour è uscito con grande successo negli Usa ed è già uno dei nomi «caldi» nella corsa agli Oscar. Abbiamo raggiunto la regista al telefono, a Berlino, dove abita.

Quando Edward Snowden ti ha contattata stavi già lavorando a un film sulla sorveglianza segreta del governo. Puoi dirci cos’era e come si è evoluto in Citizenfour?

Nel 2011 avevo iniziato a girare un film proprio sulle pratiche della National Security Agency. Avevo intervistato gente come William Binney, un whistlblower che ha lavorato per anni all’Agenzia, Glenn Greenwald, perché mi interessava la nascita di un nuovo giornalismo «d’opposizione», fatto di outsider, che pone domande difficili, e Jacob Applebaum, del Tor Project, che lavora su software che permette l’anonimato online. Prima del contatto con Snowden il mio era essenzialmente un film sullo zeitgeist, con personaggi multipli. Ma quella mail misteriosa, che ho ricevuto all’inizio del 2013, ha cambiato le cose. Ha dato al film uno svolgimento narrativo, una trama, un personaggio principale. L’altro grosso cambiamento è che, avendo ricevuto queste mail, io sono diventata parte attiva degli eventi. Quindi il film sarebbe stato filtrato dalla prima persona. Il primo montato includeva Snowden e il materiale che avevo girato in precedenza. Ma, con Mathilde Bonnefoy, ci siamo rese subito conto che Hong Kong avrebbe dominato la struttura del film. E abbiamo dovuto riconciliarci con il fatto che ci trovavamo davanti a due film diversi: dovevamo fare delle scelte. Così, in Citizenfour, usiamo solo parte del vecchio materiale, per illustrare la progressione che ci ha portati a Hong Kong e la premessa della decisione di Snowden.

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Nel film Snowden ripete più volte di non volere essere lui «la storia». È stato difficile convincerlo a farsi riprendere?

Durante il nostro scambio di e-mail, non sapevo chi fosse. Pensavo che sarebbe rimasto una fonte anonima. Che a un certo punto avrei ricevuto dei documenti senza però sapere da dove venivano. Invece, dopo tre mesi che comunicavamo, mi ha detto che aveva intenzione di identificarsi. Non solo, mi ha chiesto esplicitamente di non proteggerlo: «voglio che tu dipinga un bersaglio sulla mia schiena». È l’opposto di quello che in genere succede tra una fonte e un giornalista. A quel punto gli ho chiesto un incontro. Volevo filmarlo. La sua reazione iniziale è stata negativa: la storia doveva concentrarsi sulla National Security Agency, non su di lui. Al che gli ho risposto che i media lo avrebbero messo in mezzo comunque, e che solo lui poteva spiegare perché aveva deciso di correre un rischio simile. Parecchi mesi dopo ci siamo trovati a Hong Kong

Diversamente da gran parte dell’attuale produzione documentaria, i tuoi film non sono «a tesi», o sul modello del giornalismo d’inchiesta. Sono testi aperti, costruiti su personaggi. Mi ricordano D.A. Pennebaker, Leacock..

Effettivamente vengo dalla tradizione del cinema diretto – Robert Drew, D.A. Pennebaker, Al Maysles… È un tipo di cinema che amo, e che porta con sé un’intrinseca componente drammatica. Penso a documentari come Primary (sulle primarie del 1960, tra Kennedy e Humphrey, ndr) o Crisis (del ’63 su Kennedy e l’integrazione razziale delle scuole, ndr). Sono record di momenti storici, in cui il dramma è palpabile…Anche a me interessa filmare gli eventi in tempo reale, mentre accadono, non presentarli come una cosa del passato. Ho fatto un film sulla guerra in Iraq, My Country, My Country. È una registrazione diretta dell’occupazione, effettuata durante otto mesi di permanenza a Baghdad, e raccontata attraverso la prospettiva degli iracheni, del personale dell’Onu,e anche di alcuni mercenari. Non è un film su gente che discute di politica. In genere io identifico un tema che mi interessa, vado «sul posto» e scopro le persone attraverso cui voglio esplorarlo. A quel punto il loro viaggio diventa il mio e spesso la realtà che trovo è diversa da quelle che mi aspettavo. Per il film sull’Iraq, per esempio, ho cominciato da una posizione critica nei confronti della guerra, ma, dopo esserci stata, ho dovuto assumere una prospettiva meno cinica nei confronti del significato che le elezioni avevano per gli iracheni. E il film lo mostra. Cerco un rapporto dialettico con i soggetti, non persone che articolino il mio punto di vista.

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Per questo durante l’incontro con Snowden, non sei quasi mai tu a fargli delle domande?

Quando siamo arrivati nella stanza dell’albergo il mio ruolo era quello di documentare quel preciso momento della cultura del giornalismo. Glenn (Greenwald) era il reporter della storia e quello che l’avrebbe pubblicata. La mia funzione era documentaria. In quanto filmmaker, mi interessava la capsula temporale degli otto giorni – il momento in cui lo incontriamo, l’inizio della pubblicazione dei documenti, e quando diventa chiaro che il mondo esterno sta per irrompere in ciò che stiamo facendo. Era come essere l’occhio di un ciclone.

La stanza bianca, il letto sfatto, le T shirt di Snowden che cambiano con il passare dei giorni. Hai usato il set in modo molto efficace.

Quando abbiamo iniziato a parlare di incontrarci mi auguravo che non sarebbe successo in una stanza d’albergo –visivamente sono molto limitate. Invece è andata così.. In realtà credo che, alla fine, qual set abbia giovato al film, e comunicare la qualità claustrofobica di quell’occhio del ciclone di cui parlavo prima. Ma lo ammetto, come regista, non ero entusiasta.

Il cuore del tuo film è la decisione di Snowden. Lo vediamo nel momento in cui perde completamente il controllo della propria vita in nome di –ci dice – un’ideale di democrazia. L’impressione quella di un gesto sacrificale. Sei d’accordo?

Assolutamente. È da dieci anni che lavoro sull’era post 11 settembre e sono convinta che stiamo attraversando una crisi del processo democratico, che certi principi fondamentali che hanno a che fare con il rispetto della legge e con la trasparenza siano stati infranti. E credo che la storia guarderà con occhio critico episodi come Guantanamo, la tortura, l’invasione dell’Iraq, la sorveglianza di massa…Sono precedenti orribili, non sintomi di salute per la democrazia. Questo è il soggetto del film. Come dice Snowden: il pubblico ha diritto di sapere. Questo tipo di scelte va discusso. Il governo non deve intraprendere programmi che sono decisi in segreto, gestiti in segreto, che non rispettano la legge. Il Congresso non può non essere al corrente di quello che fanno i servizi segreti. Queste sono le cose in cui crede Snowden.

Ti è dispiaciuto non poter più filmare quando Snowden ha abbandonato l’hotel di Hong Kong?

Molto. Sono rimasta a Hong Kong più a lungo di tutti gli altri. Snowden è andato underground il lunedì; Glenn è partito martedì, il suo collega del Guardian giovedì. Ero in contatto con l’avvocato. Volevo filmare ma c’erano dei problemi, tra cui il fatto che ero sorvegliata e avrei quindi dovuto liberarmi di chi mi seguiva. Era una situazione rischiosa sia per lui che per me. Ho girato la manifestazione tenutasi sabato a favore di Snowden. E l’avvocato mi aveva promesso che avrebbe fatto il possibile per far sì che lo raggiungessi. Quando però Glenn ha scoperto che stavo ancora cercando di filmare mi ha intimata ad andarmene da Hong Kong: era troppo rischioso. Al che sono andata all’aeroporto e ho preso un volo per Berlino. Ho anche provato a girare quando Snowden era bloccato all’aeroporto di Mosca. Ma purtroppo non ha funzionato.

Quante volte invece sei stata a Mosca dopo che gli è stato concesso l’asilo? Nel film si vede molto poco…

Almeno quattro. E ho girato cose che non sono nel film, come un incontro con l’ACLU. Eravamo già molto avanti con il montaggio. Ma volevamo includere il fatto che Lindsay Mills aveva raggiunto Snowden in Russia. Eravamo a Hong Kong quando la NSA era andata a casa sua, alle Hawai, e nel film si vede l’impatto emotivo che quella notizia ha su di lui. Per me era commovente che lei fosse andata a Mosca, e volevo mostrarlo. Ma è bastata un’inquadratura. Citizenfour non aveva bisogno di un’intervista più lunga. Non volevo aprire un nuovo capitolo.

Citizenfour annuncia l’esistenza di un altro whistleblower con cui siete in contatto. Pubblicherete altre storie? Un altro film?

Non posso entrare nel dettaglio del nostro lavoro di reporter se non per dire che la storia continua.…L’introduzione del secondo whistleblower non significa un sequel, è che non volevo dare un’impressione di chiusura narrativa. Per me Citizenfour non può terminare con una risoluzione. Deve avere un finale aperto, far capire che si sono altre fonti, altri whistleblower. Gli articoli continueranno a uscire. Volevo finire su quella nota. Spingere il film fuori dal fotogramma.

Quale credi sia stato l’impatto di Snowden?

Molto forte sul giornalismo. Adesso sappiamo che il governo ci sorveglia, anche negli Stati uniti. Quindi i reporter di national security prendono precauzioni molto più forti per proteggere le fonti. E c’è stato uno scarto anche nella tecnologia: si sta creando un mercato per la privacy. È più difficile valutare l’impatto politico. Sarà cambiato qualcosa dietro alle quinte..Ma il grosso dei programmi di sorveglianza rimane in vigore anche se, dopo il rilascio dei documenti, ci sono delle cause in corso che ne mettono in questione la legalità

E l’impatto del film?

Il mio obbiettivo va aldilà della possibilità di modificare l’opinione del pubblico nei confronti Edward Snowden. Il che non significa che il film non possa modificarla….Il governo ha cercato di presentare Snowden come un agente che lavora per un altro governo e noi dimostriamo che è una tesi assurda. Uno può chiedersi se abbia fatto o meno la cosa giusta, e decidere di conseguenza.. Ma è evidente che non sta lavorando per conto di altri, e il perché ha preso questa decisione. Quello che però mi interessava veramente era mettere in risalto come, dopo l’11 settembre, l’America abbia abbandonato alcuni principi fondamentali della legge. Credo sia una strada molto pericolosa, un fallimento di leadership morale. Mi auguro che intraprenderemo presto una direzione diversa. Per ora non è così.