Costituzione sospesa e prossima a essere emendata. Pieni poteri estesi a colpi di decreti presidenziali. Un parlamento ormai dimenticato e deputati che hanno perso ogni sorta di garanzia (qualcuno sta già cercando un nuovo lavoro).

IN UNA SETTIMANA lunghissima per le istituzioni tunisine il presidente Kais Saied ha messo fine al processo democratico post 2011. Lo ha fatto prima con un discorso alla nazione da Sidi Bouzid – la città simbolo della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini – e in seguito ha emanato un decreto composto da 23 articoli in cui è diventato legislatore e controllore della Tunisia.

Domenica scorsa le opposizioni sono tornate per il secondo weekend consecutivo in avenue Bourguiba per manifestare contro quello che viene considerato apertamente un colpo di Stato. Poco più di cinquecento persone la scorsa settimana, quando l’eco della presenza del partito di ispirazione islamica Ennahda era ancora troppo forte, stavolta le presenze sono state 3mila.

Un aumento sensibile che testimonia anche l’eterogeneità di chi sta cominciando a porsi apertamente contro le decisioni del responsabile di Cartagine.

«Siamo stati traditi da Saied – sono le parole di alcuni manifestanti che vogliono parlare senza dare i loro nomi – Lo abbiamo votato alle elezioni presidenziali ma ha fatto un colpo di Stato. Lo abbiamo aspettato, ci aspettavamo che difendesse i nostri diritti e desse lavoro ai tunisini. Siamo delusi, la democrazia è una linea rossa che non si può superare».

TRA I SIMBOLI che hanno caratterizzato la giornata c’è stata la costituzione del 2014, tornata in strada dopo che alcune copie erano state bruciate dai sostenitori del presidente sabato 24 settembre in un’altra manifestazione. Sostenitori di Saied che si sono presentati anche il giorno dopo, erano poche centinaia, separati dal resto dei manifestanti da un imponente cordone di polizia.

Nel frattempo, in quello che non può rivelare la piazza, una dimissione di massa ha scosso il partito che più di tutti ha subìto il reset istituzionale imposto il 25 luglio scorso: Ennahda.

113 membri del movimento islamico, che prima del colpo di forza stava governando il piccolo Stato nordafricano da dieci anni, hanno voltato le spalle al leader del partito Rached Ghannouchi con una motivazione molto chiara: «L’attuale direzione è la sola responsabile dell’isolamento del movimento e in grande parte anche della situazione generale del paese».

Uno scossone improvviso in vista del congresso previsto a fine anno. Tra i dimissionari ci sono deputati, dirigenti di partito, ex ministri, membri del consiglio della Shura ed eletti locali. Dal canto suo, Ghannouchi ha fatto appello a una rivolta pacifica contro Saied definendo il decreto presidenziale n. 2021-117 «un chiaro tentativo di cancellare la costituzione».

LA SITUAZIONE in Tunisia rimane tesa. Dalle precarie condizioni economiche e sociali in cui si trova il paese oggi e che torneranno in auge a gennaio, quando le rivendicazioni popolari trovano il loro apice, il dibattito si è spostato sul presunto colpo di Stato del presidente della Repubblica.

È in questo contesto che diciotto organizzazioni della società civile hanno condannato senza mezzi termini l’accorpamento dei poteri a Cartagine. «La promulgazione del decreto del 22 settembre è un’abrogazione del sistema costituzionale e costituisce un primo passo verso l’autoritarismo – si legge nella nota – Esprimiamo inquietudine per i diritti umani in ragione di una manomissione senza limite sui poteri».