Questo 2021 è stato senza dubbio l’anno di Draghi. Ma – lo ha fatto capire lo stesso Presidente del Consiglio nella conferenza stampa prenatalizia – a meno di un probabile ma non scontato sbocco quirinalizio della sua parabola politica, l’anno 2021 potrebbe rivelarsi il primo e l’ultimo di Draghi.

Il terreno sul quale si muove l’ex banchiere all’ingresso dell’ultimo anno di legislatura è scivoloso. Il rischio è che i partiti, fino ad ora poco propensi a dare segni di vita, comodi come stavano all’ombra del «governo dei migliori», alzino la testa all’improvviso, sentendosi in dovere di metter su alla bell’e meglio un canovaccio di scontro elettorale dopo aver convissuto l’ultimo anno anche troppo pacificamente (è curioso notare come i governi di grande coalizione siano molto meno rissosi di quelli «di parte», ennesimo segnale delle affinità elettive tra presunti schieramenti rivali).

In conferenza stampa Draghi ha mostrato il solito volto sprezzante verso le mire dei partiti, ma sereno verso i cittadini: il Recovery fund approvato mette il pilota automatico al Paese per i prossimi lustri, qualsiasi nuova maggioranza si formi in parlamento avrà compiti di ragioneria; tutt’al più, se la pandemia perdura, si potrà mimare un po’ di battaglia a favor di telecamere su vaccini e mascherine. Meglio se al Quirinale verrà issato l’artefice del capolavoro; ma, vada come vada, la missione è compiuta.
Che dal punto di vista di Draghi, della sua visione della società, degli interessi che lo hanno sostenuto in questo periodo, la missione sia compiuta, non c’è dubbio.

Rimangono però forti dubbi, nel corpo vivo del Paese, se non si trattasse invece di una missione impossibile da compiere. Perché la pandemia non ha fatto che accelerare dinamiche operanti ininterrottamente dallo scoppio della crisi del 2008, nella quale siamo ancora immersi. E quindi il dubbio c’è, e bello grosso, circa le capacità delle classi dirigenti di uscirne, stante la loro pervicacia nel voler mantenere intatto il quadro politico-istituzionale che l’ha prodotta.

Ci si impegna con sempre nuovi sotterfugi per garantire i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, vuoi svalutando sempre di più il lavoro (che cresce solo se precario e iper-sfruttato, pur in presenza di un timido rimbalzo del Pil), vuoi ampliando a favore dei grandi gruppi finanziari la sfera di ciò che è sottoposto alla disciplina del mercato (privatizzazione esplicita dei servizi pubblici e strisciante di sanità e pensioni). Si vorrebbe certo continuare in questa direzione conservando la vigenza o per lo meno la parvenza delle istituzioni liberali e rappresentative, ma guai (com’è successo ultimamente con lo sciopero generale di Cgil e Uil) se queste ultime rischiano di essere permeate da un minimo di conflitto redistributivo.

Sono ormai tre lustri, dallo scoppio della crisi, che le classi dirigenti si cimentano in questo gioco di equilibrismi. Non solo in Italia, ma in tutto l’arco euro-atlantico. In attesa del miracolo, uomini della provvidenza si avvicendano davanti ai parlamenti per poi rivelarsi, nel giro di poco, leader di cartapesta. Da Monti a Renzi, da noi ne abbiamo ampia esperienza, ma in tutte le democrazie parlamentari i governi cambiano a ritmi molto «italiani»; ed anche laddove sistemi istituzionali più verticistici mettono al riparo gli esecutivi da rischi repentini, questi vengono poi o rispediti al mittente alla prima tornata disponibile, o accompagnati nella loro riconferma da disinteresse e astensionismo.

In parte il fenomeno è dovuto al meccanismo mediatico che li insedia, e che deve però presentare in continuazione novità mirabolanti, ché altrimenti il fruitore dopo un po’ cambia canale. In parte il dato è strutturale: dalla crisi, che viaggia ormai verso la piena adolescenza, con questa architettura economica ed istituzionale non se ne esce. Stagnazione economica e stagnazione democratica si avviluppano in una mutua spinta verso il baratro, dalla quale si salvano solo poche oligarchie.

Per quanto nel nostro vocabolario e nel nostro senso comune la parola «crisi» rimandi ad uno stato momentaneo e provvisorio, la verità è che le classi dominanti nella crisi ci si trovano a loro perfetto agio. Senza spinta dal basso della società civile organizzata, cioè senza il conflitto, non se ne uscirà.

«Io dico – osservava Machiavelli – che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che e’ non considerino, come e’ sono in ogni repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro». A giudicare dalle reazioni alla proclamazione dello sciopero generale, anche a sinistra si è persa la memoria di questa grande lezione democratica. Eppure l’uscita della crisi sta nella sua attualizzazione, non certo nella riproposizione di ricette che da decenni producono, direbbe Machiavelli, «ruine».