Si è chiamato «Summit for democracy», è stato voluto dagli Usa ed è stato un vertice mondiale in teleconferenza sulla «peggior forma di governo tranne tutte le altre», per citare l’arcinota definizione di Churchill. Due giorni di interventi, conclusi ieri dal presidente americano Joe Biden. Convocazione a inviti, decisi dalla Casa Bianca e non proprio selezionatissimi: 100 «invitati» – manco li potevano chiamare stati, perché ce n’era qualcuno come il Kosovo che non tutti riconoscono – sui quasi 200 paesi dell’Onu.

Non c’erano Cina e Russia, e questo scavare un solco tra «noi» e «loro» è forse il vero significato di un vertice sulla democrazia fatto da un paese che a furia di esportarla è rimasto a corto. Non c’era l’Arabia saudita, a cui gli Usa hanno venduto 650 milioni di dollari di missili aria-aria giusto il mese scorso. Non c’erano molti altri paesi più o meno autoritari, con cui il mondo «democratico» traffica comunque – e finché la Cina produrrà il 100% dei container mondiali, le democrazie continueranno a trafficarci. In compenso c’erano Filippine, Pakistan, Nigeria, India, Brasile, Turchia, e l’idea che a spiegarci cos’è la democrazia siano Narendra Modi, Jair Bolsonaro o Recep Erdogan è fastidiosa.

La lista degli invitati è stata largamente la questione più discussa del summit, l’intenzionale assenza di Pechino e di Mosca la sola davvero importante, la pretesa di Joe Biden al ruolo di leader del «mondo libero» la causa scatenante. Per il resto, molte dignitose parole (Mario Draghi tra gli altri) e moltissimo di ciò che Greta avrebbe chiamato bla bla.

Ma non fa niente, lo stato della democrazia è in pauroso arretramento ovunque, e poi la Polonia e l’Ungheria e la Bielorussia e gli autocrati, quindi ogni iniziativa è lodevole. Basta non prendersi in giro: la democrazia del «Summit for democracy» è uno strumento della competizione globale, ma quella dei mercati e non quella delle idee. Washington ha annunciato che investirà 425 milioni di dollari nella «Iniziativa presidenziale per il rinnovo della democrazia», puntando – nell’ordine – su media indipendenti, lotta alla corruzione, diffusione della tecnologia e elezioni libere e eque. Sarebbe spettacolare.

Ma spettacolare è stato uno dei (tre) panel convocati ieri alla videodemocrazia di Biden. Iniziato alle 6.20 del mattino ora di Washington, si intitolava «Rafforzare i difensori dei diritti umani e i media indipendenti entro e attraverso le frontiere». Esattamente il giorno in cui una sentenza a Londra ha messo finalmente a disposizione delle carceri americane Julian Assange, braccato da Washington entro e attraverso mille frontiere, per dieci anni e da tre diversi governi. Assange descrive la sua creatura Wikileaks come un media indipendente, per l’appunto, e le informazioni che ha diffuso come notizie – e dio se lo erano.
Gli Usa lo hanno invece chiamato spia e quando arriverà in ceppi (possibile un appello) lo seppelliranno in galera. Nel vecchio Pci si sarebbero dette «contraddizioni in seno al popolo». Il panel sui media indipendenti era presieduto dall’amministratore della U.s. Agency for International Development e moderato dal presidente del National Endowment for Democracy, due grandi agenzie governative americane.

Ora, Usaid e Ned sono esattamente il braccio armato di Washington nelle democrazie altrui. Usaid presta dollari «per lo sviluppo economico» e riscuote libbre di carne dai paesi che li accettano. Il Ned fa in modo manifesto quello che la Cia ha già fatto di nascosto, finanziando persone e progetti politicamente sensibili. Solo la Bolivia di Evo Morales trovò la forza di cacciare a pedate Usaid, Ned e già che c’era anche Cia, Dea e ambasciata americana – non molto tempo dopo giunse un golpe. La Bolivia, tornata a sinistra, non è stata invitata al «Summit for democracy».

Per non parlare dello stato deplorevole delle elezioni americane, da quelle rubate da Bush jr in Florida fino a quelle assaltate dalle «truppe» di Trump nel celebre attacco al Congresso del 6 gennaio. Anche le elezioni del 2022 si annunciano già corrotte, dal ridisegno gaglioffo di molti collegi. Un editoriale di Time ha titolato il summit «Vetta di ipocrisia» – Time, non il Quotidiano del Popolo. Il fatto è che quando gli Usa parlano di democrazia, si finisce sempre per parlare della democrazia negli Usa.