Può succedere, in un paese come il nostro, che nell’anno definito dal Cnel come il «peggiore della storia dell’economia italiana nel secondo dopoguerra»; con la disoccupazione giovanile a livelli record e così pure l’incremento dei rapporti di lavoro precari; con importanti aziende come Telecom e Alitalia un tempo privatizzate oggi prede del capitale finanziario d’oltralpe per pochi milioni di euro; può succedere che si apra una crisi di governo che prelude a una crisi istituzionale vera e propria per mancanza di vie d’uscita all’orizzonte.
Può succedere che questa crisi non si apra in virtù della insopportabilità della situazione economica e sociale a causa delle pedissequa osservanza di tutti gli ultimi governi ai diktat pro-austerity della troika, ma per fornire un filo di speranza a un condannato con sentenza definitiva di continuare a calcare le scene della “grande politica”.
Può succedere che il presidente del consiglio in carica rinviando – con ciò pensando di compiere un atto di grande furbizia – provvedimenti economici che avrebbe dovuto prendere per evitare un disastroso incremento dell’Iva, o prospettando al suo posto un altrettanto rovinoso, se non peggiore, incremento del prezzo dei carburanti, fornisca così una insperata sponda al condannato e ai suoi sodali di ergersi populisticamente a difensore dei cittadini vessati dalle tasse. Può succedere che un Presidente della Repubblica per la prima volta rieletto a questo fine, veda il suo disegno delle larghe intese frantumarsi come un sogno di cristallo.
In effetti è successo e in queste ore ne vedremo le possibili evoluzioni. L’orizzonte del dibattito politico nelle stanze ufficiali non sembra però andare oltre il giorno fissato per le dichiarazioni di Letta al parlamento. Lì si vedrà se il Pdl saprà mantenersi insieme, malgrado la vistosa crepa apertasi dopo l’atto autoritario della imposizione delle dimissioni a ministri e deputati da parte del suo capo – uomo impaurito e confuso, dice oggi un suo antico cantore, come Vittorio Feltri – o se invece, come quelli del Pd e non solo sperano, si determineranno nuove condizioni per un Letta-bis, magari persino con l’appoggio di parte della attuale opposizione di sinistra, come accadde ai tempi di Dini.
Dietro a tutto ciò si avverte il disegno dei centri pensanti, pochi per la verità, delle nostre classi dominanti che vorrebbero dare vita a quella che fino a poco fa si sarebbe chiamata una formazione di centro di stampo europeo, ma che oggi, visto lo slittamento in quella direzione del Pd, che si accentuerebbe con la vittoria di Renzi, sarebbe obiettivamente collocata a destra. Ovvero quello che l’Italia non ha mai avuto, se si eccettua il piccolo partito liberale, una forza politica di destra non manifestamente eversiva.
In quest’ultimo caso e solo in questo, la legislatura potrebbe avere ancora durata, anche se pessima. Diversamente tutta la questione è se andare alle elezioni con il Porcellum, come vorrebbero sia Berlusconi che Grillo, o fare l’unica cosa ragionevole: modificare la legge elettorale cancellando almeno l’ignobile premio di maggioranza e reintroducendo una preferenza per evitare un parlamento assolutamente non rappresentativo delle volontà politiche dei cittadini e per di più rifatto con dei rinominati. Ma le ragioni della ragione e quelle della politique politicienne difficilmente si incontrano. Per il resto ha ragione persino Saccomanni. La legge di stabilità è già fatta dalla troika, visto che il suo parere è preventivo rispetto a quello del parlamento, quindi se ne potrebbe occupare persino un governo dimissionario senza la necessità di uno nuovo.
Quello che serve, e che ancora non c’è, dobbiamo dircelo, è la ripresa di un movimento popolare e sociale, un forte sommovimento democratico che scardini i cancelli della politica di palazzo.
La prima occasione è l’appuntamento già fissato del 12 ottobre. Per non sprecarla occorre però evitare un rischio fin troppo evidente. Bisogna essere espliciti su questo punto, altrimenti si corre il pericolo di un grave insuccesso.
Il rischio è quello di una separazione delle tematiche democratiche e costituzionali da quelle sociali. La proclamazione nello stesso mese di ottobre di altri appuntamenti dedicati ai temi della lavoro e della casa, separati e, per usare un eufemismo, scarsamente comunicanti con quello del 12, sottolinea il pericolo che stiamo correndo.
E’ già accaduto nel passato. Si potrebbe dire, ora che possiamo fare un bilancio quasi ventennale, che tutta la lotta contro il berlusconismo ha sofferto di questa separazione o quantomeno di un incontro difficoltoso e pieno di equivoci e reciproci sospetti, fra chi si batteva per la legalità e la giustizia repubblicane e chi, per scelta e/o per necessità, privilegiava i temi della condizione dei lavoratori e dei disoccupati, dei giovani precari e della mancanza di abitazioni e servizi sociali. Questo iato ha facilitato la possibilità per i berluscones di giocare la carta del populismo. Cosa che tuttora stanno facendo.
La scesa in campo in particolare della Fiom in prima persona, quale soggetto e organizzazione sociale portante dello schieramento antiberlusconiano, ha solo in parte ovviato a queste divisioni e incomprensioni, visibili anche fisicamente nella separazione di cortei e manifestazioni. Quando non si è trattato addirittura di polemiche contrapposizioni nei contenuti, nelle parole d’ordine, nelle modalità delle proteste.
La manifestazione del 12 ha quindi un problema di qualità, prima ancora che di quantità, poiché quest’ultima dipende dalla prima. Se il messaggio che passa è solo quello della legalità e dell’osservanza costituzionale è troppo poco per mobilitare ampi settori popolari. Particolarmente ora, dentro una crisi politica dai contorni e esiti del tutto oscuri. Nella prima conferenza stampa tenuta dai cinque promotori, Landini ha fatto bene a dire con forza che non ci si mobilita per difendere la Costituzione – non solo – ma per applicarla integralmente. Intendendo quindi che parti di essa sono rimaste lettera morta e altre sono sotto tiro sul piano della organizzazione materiale della società prima ancora che su quello dei testi scritti.
Queste parti riguardano tutte, o in modo assolutamente prevalente, i temi sociali. In primo luogo quelli del lavoro; della rimozione degli ostacoli a trovarne uno dignitoso – che ci porta dritto al tema del reddito di base -; della salvaguardia degli istituti del welfare state; della loro gratuità e universalità; dell’equa retribuzione; della democrazia nei luoghi di lavoro; del diritto ad una vita dignitosa sotto ogni aspetto che incrocia il diritto all’abitare; della difesa dell’ambiente e del paesaggio che contrasta con le megaopere distruttive come la Tav. Punti fondanti della nostra Carta Costituzionale che sono minati dalle politiche economiche dell’austerity decise contro ogni buon senso in Europa, ma pedissequamente applicate, anche con eccessi – come nel caso della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, ai tempi di Monti – , dalla maggioranza delle larghe intese e dal governo.
Non si tratta di affogare la manifestazione del 12 ottobre in un universalismo rivendicativo indistinto, né di caricarla di toppe attese e responsabilità, ma avere la consapevolezza che l’attaccamento alla Costituzione che gli italiani hanno già dimostrato nel 2006 sconfiggendo il disegno del premierato (che i cosiddetti saggi vorrebbero riproporci), è fatto di molti, differenti ma potenzialmente convergenti sensibilità e bisogni.
Tutte queste sensibilità e tutti questi bisogni devono e possono concorrere a un appuntamento così ambizioso, la cui riuscita sarà frutto solamente dell’autorganizzazione, e devono rendersi visibili nella fisionomia della manifestazione e nei contenuti dei discorsi che animeranno la sua fase conclusiva in piazza del Popolo.