«Ho la possibilità di comparire davanti ad un giudice a 14 mesi dal mio arresto». Suona come un ironico ringraziamento quello che Selahattin Demirtas, co-leader del partito Hdp, ha rivolto ai giudici della 38a corte penale di Bakirkoy ad Istanbul. Il giovane avvocato è giunto oggi alla sua 97a udienza in oltre 20 diversi procedimenti a suo carico, ma è la prima a cui partecipa di persona.

In alcune udienze i giudici avevano imposto la sua assenza per motivi di sicurezza, in altre Demirtas era stato chiamato a testimoniare attraverso il sistema audiovisivo Segbis.

Ma il co-leader ha preteso il rispetto dei suoi diritti di difesa e ieri ha potuto parlare: «Per processare un membro del parlamento, la sua immunità deve essere rimossa con una votazione parlamentare trasparente. Un’immunità che esiste proprio per difenderci da accuse stravaganti e approssimative come queste».

Demirtas è accusato di aver insultato il presidente Recep Tayyip Erdogan il 24 dicembre 2015, quando di rientro da Mosca dichiarò: «La gente in Turchia non vuole una guerra con la Russia né con un altro paese. Queste tensioni nascono dalle decisioni sbagliate del governo Akp (il partito di Erdogan). Il presidente e il primo ministro stessi lo hanno ammesso. Non possono negare i loro sbagli con la solita retorica del tradimento della nazione».

Queste parole bastarono per far scattare una raffica di denunce contro Demirtas, prima per insulto al primo ministro, decaduta, poi al presidente Erdogan stesso.

Mentre nell’aula di Bakirkoy giungevano rumorosi i cori di sostegno delle centinaia di persone assiepate all’esterno in segno di solidarietà, gli avvocati hanno chiesto che i giudici, prima di entrare nel merito dell’accusa, valutassero l’illegittimità procedurale della rimozione dell’immunità. La strategia della difesa punta a sfoltire i capi d’accusa, piuttosto che affrontarli uno ad uno in tempi interminabili.

Con sorpresa degli avvocati e dei 75 tra giornalisti, familiari e osservatori ammessi in aula, i giudici hanno accettato la richiesta della difesa e hanno preso tempo fino al 17 maggio prossimo per valutarla a porte chiuse e inviare eventualmente il fascicolo alla corte costituzionale. Tuttavia, la corte è in queste ore in preda ad una crisi istituzionale senza precedenti nella storia repubblicana turca.

Due giorni fa, i suoi giudici hanno disposto la scarcerazione di due giornalisti, Sahin Alpay e Mehmet Altan, in prigione con l’accusa di essere parte del braccio mediatico dell’imam Fetullah Gülen. Secondo i giudici costituzionali, la loro detenzione preventiva avrebbe violato i diritti individuali di sicurezza personale e libertà di espressione.

La sentenza era molto attesa: da un lato perché crea un potenziale precedente giuridico che potrebbe condurre alla scarcerazione di decine di altri giornalisti dietro le sbarre (151 in tutto), dall’altro perché potrebbe far ritenere alla Corte europea dei diritti umani che nel paese vi siano ancora vie legali percorribili prima di un suo intervento legittimo.

Ma il pronunciamento ha presto incontrato anche la condanna dell’esecutivo, per bocca di Bekir Bozdag, vice primo ministro, portavoce del governo ed ex ministro della giustizia, che ha accusato la corte costituzionale di aver superato i propri limiti giuridici per essere intervenuta nel merito delle accuse.

Il vero strappo istituzionale si è però consumato quando le corti penali 13a e 26a, responsabili dei due processi, hanno annunciato che non si considerano tenute a rispettare la sentenza della corte costituzionale, definita illegittima.

Con il governo apparentemente schierato, la corte costituzionale potrebbe oggi trovarsi nell’impossibilità di far valere la sua funzione.