Alla vigilia il derby Leopolda-Cgil i toni dei renziani sulla piazza sindacale si fanno cauti. Si alzano invece quelli dei dem in dissenso con le politiche economiche del governo. La Leopolda «alimenta l’idea che c’è un segretario che non crede fino in fondo al progetto del Pd», attacca Alfredo D’Attorre. Il drappello dei filo-Cgil si è dato appuntamento sabato mattina sotto lo striscione dei poligrafici dell’Unità. Oltre D’Attorre arriveranno Fassina, Cuperlo, Civati, Bindi, i due ex segretari Cgil Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani. Andare in una piazza poco simpatizzante con il governo è una scelta delicata, per loro; anche se dagli ambienti di corso d’Italia si escludono contestazioni, almeno da parte dei tesserati Cgil. Per loro va peggio dentro il Pd.Il sottosegretario Delrio ieri a Porta a Porta ha ammesso che «essere lì potrà creare degli imbarazzi nel conciliare le posizioni nei confronti del governo». Quello che conta è che «in parlamento i provvedimenti vengano votati», «il nostro cuore è con i lavoratori. Non siamo nemici di quella piazza».

Ma è il dopo a impensierire Palazzo Chigi. Alla camera la minoranza Pd, contraria al Jobs Act, punta a discutere prima la manovra e poi, ma solo poi, la riforma del mercato del lavoro: che dovrebbe arrivare al voto l’ultima settimana di novembre. Non è detto però che il governo non tenti un blitz per invertire il calendario. I dissensi su entrambi i provvedimenti sono molti e annunciati. E se a Montecitorio i numeri della maggioranza sono a prova di bomba, il comportamento delle minoranze resta un disturbo per il treno renzista. E un inciampo per il premier: che per di più ha dovuto smettere di far agitare ai suoi il tema della disciplina di partito: il segretario Pd non può comportarsi come il leader dei 5 stelle.

Per questo ieri alla riunione dei senatori Pd sui tre dissidenti che non hanno votato la fiducia (Mineo, Casson, Ricchiuti), alla fine nessuno ha chiesto sanzioni. La storia è finita lì. E anzi persino qualche renziano ha lamentato l’abuso di voto di fiducia: «Vogliamo dare una mano a Renzi, ma non solo alzare la mano». Restano sul piatto le dimissioni di Walter Tocci. Il senatore non le ritirerà. E ora la procedura per il voto in aula, a scrutinio segreto, andrà fino in fondo. L’aula le respingerà. Ma quello che Renzi voleva evitare è proprio il dibattito sulla democrazia interna al Pd e sull’operato del governo: le ragioni per cui Tocci, dopo aver disciplinatamente votato la fiducia, ha rassegnato le dimissioni da senatore.