Ci aveva già provato Luigi Di Maio al tempo del decreto Dignità, ora caduto in disgrazia. Cercare di fermare le delocalizzazioni al tempo della globalizzazione e del capitalismo selvaggio non è facile. L’allora capo politico del M5s sosteneva di essere riuscito a bloccare l’addio dei marchi storici all’Italia, primo fra tutti la Pernigotti di Novi Ligure, finita in mano turca. Era il 2018 e effettivamente da qualche settimana la produzione Pernigotti è ripartita con 90 dipendenti che torneranno progressivamente al lavoro sulle creme spalmabili.

POI PERÒ SONO ARRIVATE delocalizzazioni ancora più dolorose e di proporzioni più ampie: la Bekaert a Figline Valdarno (320 operai di cui solo 110 ricollocati con la multinazionale belga che se n’è andata in Romania), la Whirlpool a Napoli (500 operai ora scesi a 340), la Gianetti ruote di Ceriano Laghetto (con i 152 operai ancora in presidio) e infine la Gkn di Campi Bisenzio con i suoi 422 operai aggrappati alla lotta. E gli ultimi casi, a partire da Gkn, la novità peggiore risiede nella volontà delle multinazionali di andarsene e chiudere immediatamente, senza neanche richiedere gli ammortizzatori sociali per i dipendenti.

ORA DUNQUE CI RIPROVA il governo Draghi con l’inedita coppia Andrea Orlando e Alessandra Todde. La viceministra Mise – ministero che eroga incentivi e si occupa delle crisi – del M5s ha messo a punto un testo che diventerebbe decreto a settembre.

Proprio la Todde lo scorso anno ha ideato il Fondo di Salvaguardia, che consiste nella possibilità per le aziende in crisi di ricevere un aiuto pubblico fino a 10 milioni tramite Invitalia. A patto però di non delocalizzare per cinque anni. Ma il vero problema sono le delocalizzazioni verso altri paesi dell’Unione europea contro le quali lo stato non può fare niente, pena l’intervento della commissione Europea per lesione della concorrenza con l’ineffabile Margrethe Vestager pronta a sanzionare chiunque la contrasti.

COSÌ L’IDEA È QUELLA di una norma rafforzata rispetto a quella del 2018, per impedire alle imprese di delocalizzare «in modo aggressivo». Come sempre nella composita maggioranza del governo Draghi andrà trovata una sintesi politica. L’obiettivo della stretta, «nel pieno rispetto della libertà d’impresa» – viene specificato a scanso di non essere tacciati di anti industrialismo – è stabilire delle regole affinché l’Italia non sia più per alcuni imprese straniere solo un passaggio temporaneo per poter incassare lauti contributi pubblici e agevolazioni da stato e Regioni per poi chiudere di punto in bianco, sfruttando il costo del lavoro più basso nell’Est Europa.

LA NUOVA LEGGE antidelocalizzazioni punta ad essere applicata alle vertenze in corso e i segnali su Gianetti e Gkn sono positivi: almeno la richiesta di ammortizzatori sociali da parte delle proprietà sarebbe vicina.

L’esempio è quello francese della legge Florange del 2014, dal nome della città in cui Mittal chiuse uno stabilimento, ma in versione molto più radicale: se in Francia le norme antidelocalizzazioni si applicano alle aziende sopra i mille dipendenti, in Italia si punta a utilizzarla da 50-100 dipendenti in su.

I PUNTI NODALI sono: se le imprese nei precedenti cinque anni hanno preso soldi pubblici dovranno restituirli con gli interessi; se violeranno la nuova procedura dovranno anche pagare una multa salata: fino al 2% del fatturato. Inoltre, obbligare le imprese all’utilizzo forzoso degli ammortizzatori nel caso in cui non rispettino la procedura, comunicare ogni scelta in maniera preventiva alle istituzioni – almeno sei mesi prima – , quella di convocare un tavolo istituzionale, quella di redigere un «piano di reindustrializzazione» che indichi le potenzialità del sito ed eventuali riqualificazioni.

Sarà infatti nominato un advisor al quale toccherà esplorare se esistono davvero soluzioni alternative, nuovi investitori interessati. Ma questo accade già con Invitalia da 10 anni, con l’inamovibile Domenico Arcuri che non è riuscito a reindustrializzare quasi un bel niente.