Quarant’anni. Quasi mezzo secolo di patti occulti tra il regno del tycoon italiano e Cosa nostra, iniziati sotto l’ombra del Duomo e terminati – almeno momentaneamente – nel paese dei cedri, il Libano, meta dorata per ogni latitante d’eccellenza. Un ciclo che inizia – per i giudici palermitani – con un incontro a Milano avvenuto nel maggio del 1974, presenti gli esponenti mafiosi Gaetano Cinà, Stefano Bontade e Mimmo Teresi. Nomi di peso, gente con valige piene di denaro e fame di potere. Dall’altra parte del tavolo Marcello Dell’Utri, futuro senatore, artefice – tra il 1993 e il 1994 – del partito azienda di Silvio Berlusconi, mago delle sponsorizzazioni del gruppo Fininvest. Un patto, questo, che per i magistrati durerà almeno fino al 1992, anno della trattativa.

Nelle 477 pagine delle motivazioni dell’ultimo giudizio di appello nei confronti del braccio destro del Berlusconi prima imprenditore e poi politico c’è nero su bianco l’origine di quei contatti – più che stretti – con gli uomini delle cosche: «In virtù di tale accordo – ha scritto la corte d’Appello di Palermo – i contraenti e il mediatore contrattuale hanno conseguito un risultato concreto e tangibile costituito dalla garanzia della protezione personale all’imprenditore tramite l’esborso di somme di denaro che quest’ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Dell’Utri, che ha consentito che l’associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere». E di contatti, amicizie, alleanze sotterranee è piena anche la provvisoria fine dell’ex senatore palermitano, resosi uccel di bosco pochi giorni prima della sentenza definitiva della corte di Cassazione, prevista per martedì prossimo. Una fuga annunciata, tutt’altro che imprevista, costruita grazie a contatti discreti con personaggi impresentabili, come il nero Gennaro Mokbel.

Nella Roma barocca di via Giulia si mangia il pesce che arriva dal sud pontino. Jhonny Micalusi è il patron, pronto a ricevere la gente della Roma che conta. La Dda di Roma tiene sotto controllo i tavoli di quel ristorante, l’Assunta madre, per un’indagine su un’ipotesi di riciclaggio. È l’8 novembre dello scorso anno, racconta l’ordinanza di custodia cautelare che oggi Marcello Dell’Utri si trova sulle spalle, firmata lo scorso 8 aprile. I microfoni registrano una conversazione tra Alberto Dell’Utri – fratello dell’ex senatore latitante – e Vincenzo Mancuso. «Bisogna accelerare i tempi», spiega Alberto. Per poi aggiungere un particolare che allarma i funzionari della Dia di Roma: «Quelli della Guinea Bissau gli hanno dato il passaporto diplomatico». La fuga è in preparazione. Serve un piano, dettagliato. Spunta un nome ben noto della Roma nera: «Alberto Dell’Utri, infatti, ha riferito al suo interlocutore – scrivono gli investigatori – le indicazioni che aveva fornito al fratello Marcello un certo Gennaro (individuato dalla Dia nel pregiudicato Mokbel Gennaro con il quale il Dell’Utri avrebbe ammesso di avere rapporti solo per la comune passione per l’arte)». Un soggetto «di cui potersi fidare». Ed ecco le prossime mosse: «Se io fossi Marcello prenderei un volo diretto per Tel Aviv», spiega Mancuso. «E poi da là non deve andare direttamente» aggiunge il fratello di Dell’Utri. Meglio una macchina per far sparire le tracce, evitando timbri sul passaporto e informazioni pericolose lasciate nei terminali degli aeroporti. Meta? Il Libano. Appoggi? «Un politico libanese importante», spiegano i commensali.

Quando queste informazioni preziosissime finiscono in un’ordinanza di custodia cautelare – emessa dalla Corte d’Appello di Palermo – è ormai troppo tardi. Dell’Utri è introvabile e le ultime tracce del suo cellulare lo danno in Libano. Una fuga più che annunciata, che appare avvenuta in assoluta tranquillità, programmata nei dettagli grazie ai consigli degli amici di sempre. «Aver consentito che Dell’Utri potesse fuggire all’estero è una cosa vergognosa e indegna per un paese civile», è stato il commento di Antonio Ingroia, che – da magistrato – aveva visto crescere l’inchiesta palermitana sui rapporti tra il braccio destro di Berlusconi e Cosa nostra. La responsabilità politica ieri era individuata nel ministero dell’interno, guidato da Angelino Alfano. Sel – con Claudio Fava – e il M5S hanno chiesto informazioni urgenti sulla fuga, e le dimissioni del leader di Ncd.

Nel pomeriggio di ieri – quando la notizia della fuga e del mandato di arresto era ormai nota – Dell’Utri ha voluto mandare una sorta di cartolina dal suo indirizzo sconosciuto: «Mi sto curando, non voglio fuggire», ha fatto sapere. Parole che suonano come l’ennesima beffa, a conclusione di un ciclo durato quaranta lunghissimi anni.