Sembra che l’attivismo in arte abbia sostituito la contro cultura assimilandone slogan e gestualità. Quando nel sistema dell’arte l’attivismo prende forma discorsiva non ne perturba l’ordine vigente del linguaggio, lo replica, nei paesi anglosassoni in inossidabile PhDese fitto di citazioni, con rare offerte alla radicalità epistemologica.

Rimane spesso fedele al formato capitalista e colonialista di cui tratta, non lo fa deragliare, non lo invade stile tsunami. In versione performativa l’attivismo dà il suo meglio quando si scorda le battute, magari inciampa perde la cognizione del tempo lascia a casa stendardi e rarefazione ma non dimentica i motivi per cui é li.

Lascia al pubblico il lavoro della reperibilità del senso e ad instagram quello della risonanza. La controcultura più radicale non é immediatamente mappabile, appena lo diviene, assimilata dal mainstream si usava dire, diventa irreperibile e tocca ricominciare a sbirciare se della sua epistemologia si vuole godere.

L’attivismo in arte o mette in crisi e si adopera nel ridefinire i rapporti di produzione e di egemonie o non é. Attivismo non é verbalizzare in PhDese ciò che si vuol fare ma puntare lo sguardo critico sulle istituzioni e spostare l’operato sul fondo della piscina dove sciamano le aragoste assassine. La controcultura i rapporti di produzione li salutava dal finestrino, al massimo elargiva qualche DIY da custodire, dischi 7’’, spillette, fanzine, fotocopie, cassette audio doppiate, san precario.

Un’artista attivista é col@i che si occupa delle condizioni in cui opera, un esempio su tutti Museum Highlights (1989) e Official Welcome (2001) di Andrea Fraser. O che sposta talmente lo sguardo abituato che mette in crisi qualsiasi ordine di valori, come ‘FischGraetenMelkStand’ (2010) un gesamtkunstwerke di John Bock dove nell’imponente casino della sua struttura si annidano opere altrui preziosissime, stralci di set di film di zombie, macchine per fare il gelato che illuminano portiere di cadillac usate per film western nei deserti della california e tranci di pizza.

Sono opere che si fanno esperire a qualsiasi livello per le quali non ci sono guide e annunciazioni ma solo il desiderio di mettersi in gioco e rimanere attivi. Pogare con i significati e i significanti e con tracce di se stess@ che rimbalzano intorno. Il “give a damn” ricamato su metri di tulle di Viktor & Rolf senza bondage up yours non rimane.

Roma ha una sua storia di contro cultura da leccarsi i gomiti dove gli inneschi tra cinema arte teatro musica politica e spiaggia attiravano la pratica di chiunque fosse sintonizzato, da Carmelo Bene e il Living Theatre in poi. Bisognerebbe dare buca più spesso alle logiche del capitale cognitivo estrattivo.