Ha il tenore del verso poetico il titolo dell’ultimo libro di Francesca Mannocchi, Bianco è il colore del danno (Einaudi, pp. 207, euro 17,00), in cui prende parola sulla propria malattia, la sclerosi multipla. Ne ha scritto per la prima volta pubblicamente nel luglio del 2018 dalle pagine de L’Espresso in cui consegna importanti servizi; gli intensi reportage, anche televisivi, dalla Libia dall’Iraq dalla Siria o quelli più recenti dalle Rsa durante la pandemia, non sarebbero stati uguali se Mannocchi, 39 anni, fosse arrivata alla professione giornalistica priva dell’attaccamento appassionato alle parole con cui invece si misura da tempo, sia nella lettura che nella scrittura. In questo orizzonte vanno collocati anche i suoi lavori precedenti, Io Khaled vendo uomini e sono innocente (Einaudi, 2019) e Porti ciascuno la sua colpa (Laterza, 2019). Andando a ritroso, ci sono le sue raccolte poetiche, basterebbe nominare per esempio La tirannia dell’intimità (Fara editore, 2010).

LA CAPACITÀ di squadernare e poi ricomporre la realtà, spesso intollerabile di ingiustizie, è dunque proporzionale alla nominazione del mondo, un affidamento devoto, silenzioso, disadorno, riguardo la relazione. Leggendo Bianco è il colore del danno riconosciamo quella stessa donna infaticabile che compone un libro complesso, necessario perché politico, a partire da sé, nel basso continuo di cura intransigente e grazia cui ci ha abituati. Così insieme alla malattia di cui ci mette a parte intravvediamo il suo amore per la poesia, la scorgiamo per esempio su una terrazza egiziana quando nel 2013 legge Edmond Jabés e prende un taxi per andare a visitare Qarafa, dove il catalogo dei vivi sta insieme a quello dei morti. Avvertiamo l’intermittenza della ruga viva sulla fronte quando Alessio, il suo compagno – di vita e di lavoro – la fotografa insieme al loro figlio Pietro. È anche questo, per il punctum della immagine, un altro amore fondante di Francesca Mannocchi.

Bianco è il colore delle lesioni, accoglie tutto l’incontenibile, soprattutto ciò che non ha atteso consenso per decidere di arrivare rendendosi irreversibile. Ci sono fenditure precise, ripercorse dall’autrice, per trovare il bandolo di un tempo che non le appartiene più, espressione frequente per chi come lei ammette il dolore di restare, ora in una forma di maggiore e incontrollabile disappropriazione.
Ora sì, che però sa, molte sono le cose ad affastellarsi: frasi, scene, fotogrammi sbiaditi del proprio corredo famigliare, nel linguaggio della inchiesta, dell’appunto, del diario – avanti e indietro. E corrispondenza di visione, ogni volta, per alcune scritture letterarie e filosofiche che talvolta implicite compaiono a tagliare la scena, siamo con lei nello scavo di ciò che sempre ha amato quando alla domanda del dottore sulla eventualità di chiedere aiuto – per chi ha creduto di farcela sempre da sola – risponde con un celebre verso di René Char: «La lucidità è la ferita più prossima al sole»; le siamo accanto nell’ammirazione verso il monologo di Molly Bloom dell’Ulisse di Joyce; le crediamo quando vagola intorno al corpo senza organi deleuziano, e ancor prima artaudiano, senza dichiararsi mai esausta. Eppure lo è. Di una stanchezza simile a quella menzionata da Blanchot che appartiene al pensare. E al soffrire. E che molto ha parlato alla sua adolescenza.
Di un’altra qualità sono però abbandono e paura quando si sta dentro al tubo della risonanza, quando i farmaci sono iniezioni davanti allo specchio mentre gli altri in casa dormono. La solitudine, di quel tremore e di quel timore, tocca un altro perimetro.

SE IL RIGORE GIORNALISTICO ci ha portati a conoscere alcuni orli del mondo e vite che non sono la sua, la parola di scrittrice consente a Francesca Mannocchi obliquità, profonda e misurata, anche su un evento come quello di scoprirsi malata. Aveva 36 anni quel giorno, risvegliatasi in un letto di un albergo palermitano si accorge che un lato del corpo non le risponde più. Di questo tranello ai suoi danni, setaccia prodromi e soprattutto tempi diseguali. Perché la sclerosi multipla non si dà nella forma di un evento acuto cui segue, in teoria, una soluzione esatta, è piuttosto slabbro che segna la cronicità in senso lasco, di attesa, che si confà ad altre parole, simili a «contenimento», «ricerca», «potenzialità». È congedo massiccio di una moltitudine, delle identità d’accatto e di quelle che avrebbe voluto tenere vicine nella stanza affollata in cui a un tratto si trova.
C’è allora una nuova soglia, se è un nascere sarà certamente disnascere – avrebbe detto Maria Zambrano – per cui anche lei disfa e ricuce e poi pazientemente cerca un inizio in cui si possa trovare «una storia che esca dai nostri corpi, insieme». Questo il nodo di uno dei tratti più dolorosi di tutto il libro, colpisce come fosse una istantanea: tra linee materne e genealogie femminili, arriva infatti la conversazione frontale con la propria madre.

ED È CON LA MADRE con cui fa i conti, Mannocchi. Da figlia quale si riscopre nella malattia, da madre lei stessa – sei mesi dopo il parto si presentano i primi sintomi. Qui l’anatomia di un doppio accudimento, di un mancare, ripetere, non vedere, dipendere. Intanto il tempo si flette e sua nonna è l’unica «misura del passato», l’unica che non ha mai inteso stanarla ma l’ha sempre «saputa».
È stata, Rita, una donna che le ha mostrato con la semplicità di gesti sapienti il significato di «allargare» le lenzuola per poi piegarle. Che nella sua memoria diventano un saper piegare gli angoli dell’irrevocabile, allargando la paura. Sembra una minutaglia, eppure sono dei chiarori biografici, insieme ad altri, che sono orazioni di bambina amata. Con il monito del bene, «Stai attenta a te».
Se rimettersi al mondo con maggiore gentilezza non è possibile, per essere finalmente viste, desiderate, ciò che si può fare è forse tessere inventari di ciò che resta, cambiare il filo che spesso si rompe. Intanto una voce nella testa, quando è stato che il corpo mi si è rivoltato contro? E perché è successo a me? Questa inimicizia è tuttavia, per Mannocchi, operoso laboratorio del simbolico da sempre, perlustrazione di reticenze trascorse, nascondimenti e illuminazioni ricorsive; di queste ultime scandaglia l’opacità, lo fa per sé e lo fa per chi legge, ne avverte il presagio impronunciabile, la profezia di ragazzina. Con una signoria che è essa stessa educazione politica.

NON CADE MAI nella retorica trionfale del combattimento, anzi restituisce la storia complessa di una fragilità in trasformazione, presa per mano riesce addirittura a curvare lo sguardo deformante, a scostare l’angoscia di proiettarsi impossibilitata all’improvviso ad assistere alla crescita del proprio bambino, con il terrore di non poter più leggere, vedere, fare l’amore, parlare, camminare, nuotare. Come un verdetto che arriva lento e gelido, simile ai tanti tribunali della mente con cui ha dovuto negoziare. In questo laborioso cantiere del sé non si diventa più brave né più forti, ci si esercita a radunare, a lasciare andare e a farsi ancora sorprendere dalle domande, si costruisce qualcosa d’altro accanto alle rovine, mai sopra. Si impara ad assumere la larghezza come una freccia del tempo che allunga e respira nelle maglie dell’impensabile. La questione, tra le tante sollevate, è come confrontarsi con il fantasma di una scomparsa primordiale, quella poco precedente il «grado zero» di cui hanno scritto Rossana Rossanda e Manuela Fraire in un libro cruciale come La perdita (Bollati Boringhieri, 2008).

SE C’È QUALCOSA di lineare è il funzionamento delle macchine che verificano lo stato di avanzamento della sclerosi multipla. Dice, Mannocchi, degli occhi chiusi, del servizio sanitario nazionale e delle difficoltà, delle file e delle sediole di plastica, della rabbia che è la sua, elenca vertebre e infusioni, utilizza un linguaggio il più possibile specifico. Torna alla mente Settantadue (Alegre, 2016), quando Simone Pieranni ha dato conto di quella lunga ed estenuante esperienza della dialisi in attesa del trapianto; di quanto il distillare della macchina appartenesse a una indocilità del corpo, lui e Mannocchi si incontrano nell’essere creature «forastiche» – non a partire dalla malattia ma dall’aver «voluto tutto» che non è mai uno sbaglio. Ogni cosa infatti si lega. E di quel legame e della sua storia non c’è niente che ricordi l’inanimato bensì il vivente. Si potrebbe cominciare da una manutenzione, sia pure imperfetta, ma degli affetti.
Grazie a una tale lucidità, che comprende il periplo dell’ombra, Francesca Mannocchi invita a considerarci un colloquio, anche quando è spietato, un andirivieni di bugigattoli e radure da contrattare nello sfinimento di una tempesta, fino a giungere a fondali marini da cui la immaginiamo emergere. Molto amata, sempre libera, ancora una volta nella passione di «sentire addosso il mondo».

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LA PRESENTAZIONE

Mercoledì 24 febbraio dalle 18.30 la Libreria Tuba di Roma organizza, in diretta streaming (canale youtube e pagina fb), la presentazione di «Bianco è il colore del danno». Sarà presente l’autrice, in dialogo con Daniela Preziosi; introduce e modera Cristina Petrucci