In Italia la verità, se c’è e quando c’è, è soggetta a prescrizione.

Era accaduto con il processo ad Andreotti: accertato il reato di associazione a delinquere almeno fino al 1980 (allora non c’era l’associazione a delinquere di tipo mafioso) ma caduto in prescrizione. Il grido dell’allora avvocatessa di Andreotti, oggi ministra in quota Lega del governo a trazione salviniana: «Assolto, assolto, Presidente!», era un fraintendimento o una mezza verità.

Il copione si è replicato adesso con l’inchiesta sul depistaggio per l’assassinio di Peppino Impastato.

Un decreto del gip del tribunale di Palermo dice che la pista mafiosa è stata «aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente esclusa» , che è stata omessa «qualsivoglia attività di polizia giudiziaria indirizzata ai soggetti riconducibili ad ambienti mafiosi», cioè che il depistaggio c’è stato ma non viene usato questo termine.

I reati contestati sono favoreggiamento, concorso, falsità ideologica e sono prescritti.

E così il principale accusato, l’allora maggiore dei carabinieri Antonio Subranni, poi promosso generale, non andrà sotto processo. E neppure gli altri imputati, i sottufficiali Carmelo Canale, Francesco Abramo e Francesco Di Bono, che a suo tempo, con un «sequestro informale», misero in sacchi per l’immondizia tutto quello che trovarono sotto mano: giornali, libri, cartelle, documenti, volantini, appunti.

Queste dovevano essere le prove che Giuseppe Impastato era un terrorista inesperto, morto mentre metteva una bomba, o un terrorista suicida. Ce n’è voluto per smantellare quella sentenza emessa prima di cominciare l’inchiesta.

C’è voluta la rottura con la parentela mafiosa della madre Felicia e del fratello Giovanni, un fatto storico; c’è voluto l’impegno di alcuni compagni di militanza, c’è voluto l’impegno quotidiano del Centro siciliano di documentazione, già nato nel 1977 e poi dedicato a Peppino.

Un impegno malvisto e isolato, poiché quasi tutto il palazzo di giustizia, con poche eccezioni, prima fra tutte quella di Rocco Chinnici, e tutte le forze dell’ordine erano arroccate su quella certezza.

Aveva cominciato il procuratore capo Gaetano Martorana, con un fonogramma dettato subito dopo il ritrovamento delle briciole del corpo di Peppino: «Attentato alla sicurezza dei trasporti operato da tale Impastato Giuseppe, il quale recatosi sul binario della linea Trapani-Palermo deponeva un ordigno della cui esplosione rimaneva vittima».

E su quella strada si era immesso il maggiore Subranni, di recente condannato nel processo sulla trattativa.

Il decreto di oggi viene molti anni dopo l’attività della Commissione parlamentare antimafia che nel 1998 costituì, su input dei familiari e del Centro Impastato, un comitato per indagare sul depistaggio e nel 2000 approvò una relazione sulle responsabilità di rappresentanti della magistratura e delle forze dell’ordine.

Sarebbe potuto essere un precedente importante per far luce su eventi che hanno sconvolto e condizionato il nostro paese, e che sono rimasti un mistero a livello giudiziario. E si possono ricordare tutte le stragi, da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, alla stazione di Bologna.

A suo tempo, dopo la pubblicazione della relazione, l’abbiamo proposto, ma la nostra idea è caduta nel vuoto. Allora c’erano i governi Berlusconi, che avrebbero aperto la strada al contratto di governo dei dioscuri.

La giustizia troppo spesso arriva troppo tardi o si risolve in un buco nell’acqua.

In ogni caso, i mandanti dell’assassinio di Peppino sono stati condannati e i responsabili del depistaggio hanno nomi e cognomi.

Se si considera da dove eravamo partiti quaranta anni fa, quando a salvare la memoria di Peppino eravamo in pochissimi, possiamo dire che il nostro impegno non è stato vano. Quello di Peppino è un delitto di mafia e di Stato.

La trattativa non riguarda solo le stragi del ’92 e del ’93, com’è stato accertato, è cominciata molto prima ed è continuata nel tempo.

Falcone diceva che la mafia, come ogni fenomeno umano, ha avuto un inizio e avrà una fine, purché la fine della mafia non coincida con la fine dell’uomo.

C’è da chiedersi se siamo sulla buona strada per impedire che quella coincidenza si realizzi.