Avendo seguito il processo a Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio, per un anno ho fatto la pendolare saltuaria (una o due volte a settimana) fra Milano e Bergamo, dove si tenevano le udienze. Non parlerò del caso dibattuto in aula, ma di quel caravanserraglio che si muove attorno ai casi di cronaca nera.

Come tutte le vicende della vita che appassionano l’opinione pubblica, il caso Bossetti è diventato una messa in scena con tanto di protagonisti, antagonisti, osservatori, commentatori, tifosi. Dentro questa rappresentazione si sono mossi tutti gli elementi del teatro e dello spettacolo.

C’è la tragedia greca, con l’omicidio di una tredicenne e quattro famiglie distrutte o sconvolte (i Gambirasio, i Bossetti, i Comi, i Guerinoni). C’è stata la commedia all’italiana perché l’inchiesta ha svelato tradimenti, adulteri, segreti di famiglia destinati alla tomba e messi in piazza, omertà granitiche su questioni di corna, figli con padri diversi da quelli ufficiali. Talvolta si è sfiorata la pochade con le millanterie dell’imputato, come quando ha detto ai compagni di cella che gli avevano sequestrato mezzo milione di euro in Svizzera. C’è stato il tifo da stadio di un pubblico accanitamente diviso fra innocentisti e colpevolisti. Balzac ci avrebbe costruito sopra un pezzo della sua Commedia Umana.

In mezzo, a fare da testimoni, ci sono stati i cronisti. I giornalisti che seguono la cronaca nera e i processi sono sempre esistiti, ma da quando la passione per il delitto è diventata un format di successo, quei colleghi, essendo spesso gli stessi, formano una specie di clan transumante che si sposta di delitto in delitto, di processo in processo, di scomparsa in scomparsa. È un insieme di persone che a poco a poco, a forza di incontrarsi e lavorare fianco a fianco, intrecciano simpatie, antipatie, amicizie, sodalizi, collaborazioni, relazioni umane e professionali.

Quando si è in aula, se uno non sente bene una frase c’è sempre un collega disposto ad aiutarti. Ma quando si tratta di portare a casa un’intervista o uno scoop, allora si diventa gelosi e si cerca di arrivare per primi all’obiettivo, perché bruciare la concorrenza è comunque uno dei capisaldi del giornalismo d’inchiesta e di cronaca. Si forma così una strana alchimia dove da una parte ci si aiuta, dall’altra si compete. In tutto ciò, il collante che tiene insieme i rapporti è la stima che si conquista con due ingredienti: la competenza e la correttezza che non vuol dire smettere di cercare di arrivare per primi a una notizia, ma non fregare l’altro con mosse infide o l’inganno.

Stabilito ciò, si può condividere la disordinatissima vita da cronista che comprende: pranzi e cene saltati, menù pasticciatissimi, caffè in eccesso, levatacce e ore piccole, panini trangugiati scrivendo, bivacchi, attese, corse, zaini/ufficio, caldo/freddo, passaggi in auto, sigarette e tutto ciò che fa assomigliare la vita più a un campeggio che a un hotel a 5 stelle.

Emmanuel Carrère aveva notato tutto ciò seguendo il processo a Jean-Claude Romand (condannato all’ergastolo per aver sterminato la famiglia) e da cui ha poi tratto il libro «L’Avversario». Si accorse, Carrère, anche delle analogie fra il clan in perenne trasferta dei cronisti e quello degli addetti ai lavori che si spostano da un festival cinematografico all’altro.
I contenuti cambiano, le modalità sono le stesse, a parte i saluti. Se ai festival ci si dice: «Ci vediamo a Cannes, a Venezia, a Berlino», a fine processo Bossetti ho sentito un collega dire a un altro: «Ci vediamo al prossimo delitto». Macabro ma vero, purtroppo.

mariangela.mianiti@gmail.com