Lascia ammirati la tenacia con cui i nostri teatri continuano a proporre a registi stranieri di dirigere un cast italiano, a dispetto di esiti non sempre felici o all’altezza della fama dei maestri, quando di maestri si tratta (metti Necrošius o Hermanis, e siamo fra i risultati meno deludenti). Chiamandoli cioè a lavorare, i registi, con attori di cui non conoscono lingua e storia, oltre che di una diversa cultura teatrale.
Ci prova di nuovo Emilia Romagna Teatro con questo Delitto e castigo diretto da Konstantin Bogomolov che vien dopo l’Universo Bolaño realizzato in questa stessa stagione dal croato Ivica Buljan. Si capisce che la meritoria intenzione è di soffiare un po’ di aria nuova sulla nostra scena. Nel caso del quarantenne regista moscovita vale poi il credito di curiosità che inevitabilmente comporta la scarsa conoscenza del suo nome. Si è letto nelle note di presentazione che è regista «irriverente» e «provocatorio» e ha già affrontato altri testi di Dostoevskij – torna in mente il nome di Jurij Ljubimov, pure tenuto in conto di dissacratore della tradizione, che anni fa si cimentò proprio qui con un dimenticato Delitto e castigo.

 
La chiave con cui Bogomolov ha affrontato il capolavoro di Dostoevskij, più che alla dissacrazione, si potrebbe forse ascrivere a una volontà di stranezza, un’attitudine che sta un gradino al disotto della meraviglia ma in grado di comunicare comunque una dose di immediato stupore. Una insistita comicità farsesca circola dentro un’atmosfera di «shopping and fucking», per dirla con Mark Ravenhill. Compulsivi orgasmi e acquisti alla Ovs. Non sapremmo dire con certezza perché Raskol’nikov e i suoi familiari abbiano la pelle dipinta di nero ma un po’ sorprende. Lui è un fanciullone in maglietta e sneakers che si muove ciondolante come immerso in un continuo rap, fra una grossa Mamie in costume africano e la sorella Dunja che invece è un’anoressica con una sfera di capelli crespi.

 
Saràper connotare una loro diversità di «immigrati» nel contesto piccolo borghese in cui sono calati, un salottino anni cinquanta dove però compare sul fondo una sfilata di schermi televisivi poco usati nel corso dello spettacolo, al pari della videocamera che vi troneggia al centro. E sarà allora la sottolineatura di una convergente diversità, quel giudice istruttore che in divisa da poliziotto non nasconde il gaio feticismo con cui condisce l’evidente attrazione per il giovane assassino. Né sapremmo spiegare perché qualcuno porti in capo una corona, senza ricavarne una particolare regalità, o il perché della parodistica Lizaveta col pancione o la sgradevole imitazione dell’andatura spastica di un ritardato.

 
Dice Bogomolov che Dostoevskij non può esserci contemporaneo e sono inattuali le domande che poneva il romanzo. Forse per questo è scomparso l’afflato religioso che accompagnava la faticosa redenzione del protagonista. Scende a un certo punto una grande croce cui è inchiodato un Cristo androgino, né uomo né donna, davanti a cui Raskol’nikov si inginocchia per una frettolosa preghiera e via. Al suo posto, come sia la religione del nostro tempo, si è installato un erotismo diffuso, con una vera ossessione per il sesso orale, che si protrae anche fuori scena a giudicare dai gemiti che vengono da lì. Solo qualcuno ne è disturbato. Gli attori sono Leonardo Lidi, Paolo Musio, Diana Höbel, Renata Palminiello, Anna Amadori, Enzo Vetrano, Marco Cacciola.