In onda dal 5 marzo sulla rete ABC, American Crime (in Italia arriverà prossimamente su Top Crime, il canale free del bouquet Mediaset) è una serie indicativa dei tentativi dei network generalisti americani di mettersi al passo con la fiction «adulta» di ultima generazione programmata dai cable, in particolare di filone «neo-noir» alla Breaking Bad per intenderci o True Detective. E come quest’ultima, American Crime è un giallo che scandaglia i bassifondi della provincia americana, stavolta non il Texas ma l’hinterland californiano, quell’entroterra a un tiro di schioppo dal glamour high-tech di Silicon Valley ma rimosso anni luce dalle coste cosmopolite. Per la precisione a Modesto, nome programmatico per un fatiscente centro agricolo della Central Valley, dove l’eufemistica «lower middle class» si aggrappa agli avanzi di american dream con la tenacia proletaria di chi cerca disperatamente di non fallire.
La serie è creata da John Ridley, sceneggiatore oscar di 12 Anni Schiavo e regista di Jimi All Is by My Side, il ritratto a «flusso di coscienza» di Jimi Hendrix a Londra uscito l’anno scorso. Qui Ridley ha però chiaramente in mente qualcosa di più di un semplice noir di provincia. Modesto infatti è molto cambiata dal 1962 in cui George Lucas vi ambientò American Graffiti e nell’assonanza di quei titoli risalta l’evoluzione nazionale dalla nostalgia adolescenziale rigorosamente bianca del baby-boom alla multietnia odierna. Una parabola demografica e soprattutto culturale che Ridley esplora in questa narrativa corale (alla Crash di Paul Haggis) sulle dinamiche etnico-razziali che sottendono crimine e giustizia nell’America post-obamiana.
Come il resto della provincia – compresa la vicina Stockton che due anni fa ha dichiarato bancarotta sotto il peso dei fallimenti sub-prime – Modesto è scivolata inesorabilmente nelle retrovie del sogno americano e la popolazione, ormai per un terzo messicana, comprende 10 mila «gangmember» e assortiti balordi (la città ha la distinzione di essere la capitale americana dei furto d’auto). Statistiche che inchiodano Modesto – e migliaia di simili località – ad una narrazione «proibita» di fallimento americano.
Su questo sfondo Ridley mette in moto la sua trama con la morte di un giovane ammazzato a casa sua. Le indagini – anche quelle informali dei genitori divorziati (Timothy Hutton e Felicity Huffman) che si ritrovano dopo anni sulla tomba del figlio – rivelano presto una doppia vita della vittima e si immettono sulla pista del regolamento di conti per faccende di droga. Viene fermato un adolescente ispanico in conflitto col padre immigrato, un piccolo spacciatore afroamericano e la sua compagna, una donna bianca, un gangster chicano… La lista degli indiziati è l’inventario dell’America multietnica e le indagini esplicitano tutto il bagaglio di stereotipi e pregiudizi che questo implica: la materia che interessa davvero a Ridley. Il cuore di questo procedural intelligente è proprio questo: l’idea americana di crimine e il manicheismo che plasma l’ossessione nazionale di delitto e castigo rimuovendo puntualmente cause e contesti sociali. È il dilemma speculare dei genitori della vittima, costretti ad affrontare segreti del figlio che hanno sistematicamente rimosso. Un po’ gli scheletri e i fantasmi razziali mai risolti che l’America si è trovata ad affrontare post-Ferguson.

Qual’è stata l’idea di partenza di questa nuova serie?

(John Ridley): Mi interessava rendere la complessità di queste vicende. Siamo talmente abituati nelle fiction tv a vedere casi perfettamente risolti nel giro di un’ora mentre in realtà a volte passano mesi se non anni prima di arrivare al processo. A me interessava esaminare gli effetti di un delitto sulle persone e lo scorrere del tempo, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. E volevo mostrare come le parti in causa possano percepire uno stesso evento in maniera radicalmente diversa, per poi ribaltare quelle percezioni.

In America si tende a semplificare il crimine in maniera molto manichea: il bene o il male…

Se mi perdonate la battuta non volevo rendere la storia solamente in termini di «bianco e nero». Quando c’è di mezzo la razza, la giustizia qui si complica sempre e ognuna delle parti la rivendica a suo modo. Quindi per me la soluzione del caso non è l’oggetto principale della storia. Quello che mi ha appassionato era la possibilità nel corso delle undici puntate di potermi realmente addentrare in tutte le sfumature della vicenda. Non volevo che suonasse come una predica, e spero di essere riuscito a comunicarlo emotivamente al pubblico
(Timothy Hutton): Infatti non si tratta di un procedural nel senso tradizionale. La soluzione del crimine è il pretesto per esplorare le dinamiche delle vite sconvolte da quel delitto. E man mano che la storia procede scopriamo come i preconcetti imposti da ogni personaggio finiscono per polarizzare l’intera comunità. In qualche modo la serie mette a confronto ogni personaggio: soprattutto nelle prime puntate, vediamo gli effetti perniciosi della chiusura mentale che tutti i caratteri manifestano. Pregiudizi che man mano vanno a cadere. È un giallo, certo, ma non è la soluzione del crimine il motore principale della narrazione, bensì gli effetti collaterali. È come se dopo il delitto la cinepresa non salisse come al solito sulla volante per seguire i detective, ma nella macchine di tutte le altre persone coinvolte.
(Felicity Huffman): C’è un evento iniziale che mette in moto la narrazione e questo coinvolge ovviamente tutti a 360 gradi. E pur essendo personaggi molto diversi c’è un comune denominatore che è poi una verità dell’animo umano: tutti cerchiamo di proteggere chi ci è vicino, giustificare le nostre azioni e tentare disperatamente di amare. E sono cose universali.

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Il suo personaggio è una donna amareggiata e razzista…

Lei si chiama Barb Hamlin. Una donna costretta a crescere da sola due figli e ci riesce malgrado grandi avversità. Ma l’esperienza l’ha indurita e riempita di rabbia. Abbiamo cercato di capire quale siano le radici del razzismo e per fare questo mi sono anche rivolta a una psicologa. Alla fine ho deciso che sono le esperienze e il dolore a fomentare tutto quell’odio. James Baldwin ha scritto che la ragione per cui la gente si aggrappa così tenacemente ai propri odi è che se li lasciassero andare sarebbero obbligati ad affrontare il proprio dolore. È la ragione per cui preferiamo mettere le persone nelle gabbie dei pregiudizi.
(Timothy Hutton): Una storia come questa ha il potere di stimolare nel pubblico un dibattito e avere un impatto anche profondo a livello umano. È una storia umana che può andare oltre i titoli dei giornali, qualcuno potrebbe identificarsi con i personaggi e forse capire quanto possano essere devastanti certi modi di pensare.

Abbastanza inedito per un canale generalista… 

Lavorare in televisione oggigiorno è davvero incredibile, è un momento davvero felice, gli sceneggiatori, i registi, produttori e gli attori, tutti ambiscono a farlo per la qualità delle storie che puoi raccontare. E credo che American Crime in questo senso sia emblematico, davvero come un romanzo in undici capitoli.