Un «certo sguardo» sul mondo, sensibile alle istanze politiche e a una evidente, urgente, impellente necessità di cambiare le cose. Così Un Certain Regard, la sezione che guarda al «nuovo» cinema, abbraccia con decisione la bella opera quarta del regista turco Emin Alper: un giallo ambientato nella regione rurale dell’Anatolia dove tradizionalismo e corruzione sono all’ordine del giorno. Il protagonista di Burning Days (Kurak Günler), Emre, un giovane e idealista procuratore trasferitosi da poco dalla città in un piccolo e polveroso villaggio colpito da una grave crisi idrica, ce la mette tutta per far rispettare la legge, per far capire agli abitanti della cittadina che è tempo di abbandonare certe barbare usanze e comportarsi secondo le regole. Fin dal giorno del suo arrivo prova a mettere le cose in chiaro, ma troverà di fronte a sé un muro di resistenza, finendo per rimanere persino coinvolto in un caso di stupro dai risvolti ambigui.

LASCIATO SOLO a combattere contro un compatto sistema di omertà, Emre potrà contare su un solo alleato: Murat, misterioso proprietario del giornale della città con il quale instaura un rapporto «inaccettabile» secondo i canoni del villaggio. Alper sceglie i codici del cinema di genere per descrivere le profonde contraddizioni del suo Paese: da un lato la spinta progressista, tesa verso un ideale di società moderna, civile e tollerante; dall’altro un conservatorismo becero e brutale dietro al quale si cela un sistema omertoso e corrotto.
Ma il regista, di cui si ricorderà l’esordio nel 2012 a Berlino (Beyond the Hill) e il distopico Frenzy premiato nel 2015 a Venezia, non si limita alla denuncia delle derive populiste e neo-fasciste della società, con dinamiche chiaramente riconoscibili anche al di fuori dei confini dell’Anatolia; punta anche esplicitamente l’accento su un’omofobia violenta tornata tristemente alla ribalta sulla scena recente della Turchia erdoganiana (solo di due giorni fa la notizia dell’ennesima irruzione della polizia a un Pride Lgbt+ a Istanbul finito con 33 arresti).

Ma il regista non si limita alla denuncia delle derive populiste e neo-fasciste della società, punta anche esplicitamente l’accento su un’omofobia violenta

L’URGENZA di smantellare i principi della società machista e patriarcale è al centro di un altro film presentato nella stessa sezione: Joyland, brillante esordio del regista pakistano Saim Sadiq, dove si racconta una storia familiare in cui convivono e stridono tradizione e modernità. Haider è sposato con Mumtaz. Il loro matrimonio è apparentemente felice. Ma è pure evidente che l’equilibrio della giovane coppia è fragile. Mumtaz è una donna per quanto possibile emancipata, non vuole lasciare il lavoro, rimanda la maternità. I suoceri desiderano invece assicurata la discendenza (e magari l’arrivo del desiderato nipote maschio). Mentre Haider è un uomo sensibile e dalla mascolinità fragile. Tutto precipita quando trova lavoro come background dancer per la ballerina transessuale Biba. Questo incontro mette in crisi Haider e la sua visione del mondo, mettendolo innanzi a inaspettate possibilità. Ma andare contro le regole è difficile e spesso si paga a caro prezzo. L’alternativa è fingere, ma anche in questo caso la moneta di scambio è l’infelicità. A metà tra dramma e commedia Joyland è la storia di una ribellione fallita, ma vitale. Conta soprattutto la spinta verso il nuovo, la volontà di rompere con le tradizioni e magari costruire una società più libera e rispettosa delle scelte individuali, delle inclinazioni di ciascuno e ciascuna. Un film che tutt’altro che passivamente invita a inseguire il proprio modo di vivere e di amare.