Nella sua opera forse più rappresentativa, La casa della vita, Mario Praz ragionando sul collezionismo e in particolare sulla passione di collezionare case di bambole osservava: «immaginiamo il filosofo nell’atto di chiedersi che alimento possano offrire allo spirito le case delle bambole, e rispondere categoricamente: nessuno». È evidente che il filosofo per antonomasia era Benedetto Croce, con il quale Praz ebbe non pochi scambi e non poche divergenze, mentre collezionismo e stramberie come le case di bambole erano con ogni evidenza territorio interessante e strenuamente frequentato da chi affrontava il mondo della cultura e delle arti da una prospettiva sghemba, alla ricerca di segni del gusto e di tracce che portavano a esplorare territori peregrini.
Sono trascorsi quasi settant’anni dalla morte del filosofo, ma quella contrapposizione potrebbe essere richiamata alla mente con qualche utilità al momento di affrontare un libro come La madre assassina (La Nave di Teseo, pp. 167, € 18,00), il nuovo romanzo di Ermanno Cavazzoni, che ha abituato i suoi lettori a contesti perturbanti e che popola i suoi libri di animali fantastici di ogni tipo e di personaggi sempre fuori dalla norma: lunatici, solitari, dementi, idioti, eremiti, tutti costantemente ossessionati da una buona dose di idee fisse quanto bislacche. Questa volta si tratta di un figlio che vede nella madre un animale mostruoso il cui unico scopo è di distruggerlo.
Se ci si chiede ancora oggi: che alimento possano offrire allo spirito le fantasticaggini di Cavazzoni la risposta potrebbe essere la stessa che Praz immaginava allora provenire dal filosofo: nessuno. La narrativa di Cavazzoni, e si potrebbe aggiungere il personaggio stesso di Cavazzoni, si impongono invece all’attenzione di quei lettori che non hanno bisogno di confortare lo ‘spirito’, qualunque cosa si voglia intendere con questo termine, ma qualcosa d’altro. Introducendo Narratori delle riserve, Gianni Celati scriveva che gli autori di quella sua raccolta (tra i quali appunto Cavazzoni) esibivano nello scrivere un atteggiamento prossimo a quello che si adotta nella lettura di un testo già noto. Leggere di un mondo già visto e già detto implica che questa scrittura configura uno spazio dove non c’è da scoprire nulla e dunque quello che vi è presentato non deve essere né conosciuto né interpretato, ma ascoltato come una ciancia, una favola cui sia stata tagliata via ogni sporgenza allegorica. È una scrittura che ha rinunciato a qualsiasi forma di ‘assoluto’, è legata a situazioni molto circostanziate, fa le boccacce alla serietà e le offre uno specchio deformante.
La madre assassina ha per protagonista Andrea, un personaggio fortemente disturbato, che vive una condizione di delirio psicotico a sfondo paranoico. Andrea manifesta una sindrome che uno psichiatra non esiterebbe a definire di depersonalizzazione e derealizzazione: è infatti fermamente convinto di essere stato ucciso dalla madre e di essere stato trasformato in un’entità meccanica, mentre il suo vero io giace – come accade in tante storie horror – in cantina. Ogni parola e ogni gesto vengono interpretati dal protagonista come coerenti con il piano diabolico che sua madre avrebbe architettato contro di lui. Anche la dolcezza della donna gli appare come un’ulteriore conferma sia dell’avvenuto ‘assassinio’ sia del fatto che la madre cerca di cancellarne le tracce. La narrazione segue passo passo le scoperte che il giovane va accumulando alla ricerca di elementi che comprovino la propria morte: la ricerca del cadavere, la raccolta di prove che suffraghino un avvelenamento, la complicità dei condomini.
Il romanzo è un noir sui generis, con un morto-vivo che indaga e cerca di incastrare il proprio assassino. Il registro è quello comico-satirico, consueto in Cavazzoni, con indulgenze ripetute verso lo splatter, mentre l’intreccio è disseminato di indizi che denunciano palesemente la propria radice letteraria; i topoi della sepoltura di un vivente e di un gatto, il rumore del cuore, l’odio di un figlio unico verso la madre portano dritti dritti a Poe, a Kafka, a Gadda e a Manganelli, per fare riferimento solo ai più evidenti. Dunque questa volta non si tratta di automi confezionati in modo da essere tali e quali agli umani, e neanche di poveri di spirito dotati di occhio poetico e senso dell’umorismo. Qui siamo nell’ambito piuttosto grave della psicopatologia e non c’è molto da ridere: neanche la parodia di testi letterari notissimi può alleggerire la situazione realisticamente resa di un individuo delirante, potenzialmente molto pericoloso a livello sociale e familiare, e tuttavia segnato da una evidente e inscalfibile innocenza. Cavazzoni ha infatti raccontato la storia di un individuo con la mente di fanciullo, dis-eroicamente e maniacalmente intento in una distorta e paradossale operazione di ‘giustizia’. Romanzo-documento che permette l’affaccio al labirinto di una mente incapace di qualsiasi forma di autentico dialogo.