Ha scritto in un suo articolo Natalia Ginzburg che lei, finché era vivo, di Antonio Delfini non aveva mai letto nemmeno una riga. Pensava che fosse «uno scrittore noioso e futile» e anzi già i titoli dei suoi libri le sembravano «l’espressione stessa della futilità e della noia». Anche pensava che i suoi libri avessero a che fare con una delle cose che più odiava al mondo, la «prosa d’arte». Era un’idea, ci sembra di capire, attecchita nella sua mente per vie misteriose e cresciuta con robuste radici. Un giorno apre a caso un volume uscito postumo da Garzanti che si intitola I racconti, si imbatte in un personaggio con una «grande coda di pavone» e ne resta affascinata. Divora l’intero libro. Se l’autore fosse stato ancora vivo, aggiunge, gli avrebbe scritto subito una lettera. È il 1971. Solo e in povertà, malgrado provenisse da una famiglia di ricchi proprietari terrieri, Antonio Delfini era morto il 23 febbraio 1963 a Modena, dove era nato il 10 giugno 1907. Ebbe così poca fortuna che gli mancò perfino il tempo di vedere la prima copia dei Racconti, apparso in maggio nella collezione di letteratura diretta da Attilio Bertolucci e vincitore in settembre del premio Viareggio, grazie soprattutto alla determinazione di Pier Paolo Pasolini che definisce quel libro «splendido» e il suo autore «un poeta vero».
Non sappiamo quando Natalia Ginzburg lesse I racconti, né perché ne scrisse. In quel 1971, per quanto non riesca a giudicarlo «grande o piccolo», per lei Delfini è uno scrittore «straordinario e meraviglioso». Tanto che se fosse un editore si affretterebbe a raccogliere tutti i suoi testi, da sempre sparsi e ormai introvabili, in un unico volume. «L’opera di Delfini ignora il grigiore», precisa contraddicendo la vecchia idea che le stava piantata nella testa. «Il suo scrivere è chiaro come l’aria. Possiamo respirare e camminare in una luce chiara e ilare, non scansare nulla, non fingere nulla, non rassegnarci a nulla, andargli dietro nel suo raccontare che non ubbidisce né a imposizioni né a strutture, che va libero e rapido, estroso, imprevedibile, portandosi via il segreto di ogni conclusione». Undici anni più tardi – ha intanto riproposto questo articolo in Vita immaginaria (1974) – sarà proprio Natalia Ginzburg a curare per Einaudi insieme a Giovanna Delfini, figlia dell’autore, la pubblicazione dei Diari. Il lungo, caleidoscopico saggio introduttivo – divenuto un classico della nostra critica letteraria e ristampato in forma autonoma da minimum fax la scorsa primavera con il titolo Un uomo pieno di gioia e una prefazione di Emanuele Trevi – lo firma Cesare Garboli. Un amico di Delfini, oltre che il suo più illuminante e decisivo e stregonesco lettore.
Si erano conosciuti nel 1946 sulla passeggiata di Viareggio: Garboli era allora un diciassettenne ricco di confuse speranze, Delfini di anni ne aveva trentanove e in lui sembrerebbe si agitassero soprattutto confuse disperazioni. Rimasto orfano di padre a pochi mesi, aveva abitato quasi sempre con la madre e la sorella, lasciandosi spogliare insieme a loro di un ingente patrimonio, compreso il molto amato palazzo di città. Non aveva compiuto studi regolari. Pendolava tra la Versilia e la vecchia villa di campagna nella Bassa; da giovane era stato a Parigi e aveva poi vissuto a Firenze il periodo per lui così deludente e amaro delle Giubbe Rosse. All’epoca aveva già pubblicato almeno due di quei libri i cui titoli sembreranno a Natalia Ginzburg così noiosi, Il ricordo della Basca (1938) e Il fanalino della Battimonda (1940): il primo, più volte accresciuto e ritoccato anche nel titolo fino alla ne varietur garzantiana dei Racconti, rimane il suo capolavoro. Filtra la «luce» di Delfini anche nell’introduzione ai Diari, primo dei molti scritti che Garboli dedicherà all’amico: «Ma non è un Delfini nascosto; se non lo vediamo, è solo perché la sua luce c’inganna; è una luce senza trasparenza, vaporosa, nebbiosa, fatta di tanti piccoli punti luminosi, la luce di una nebulosa che sta lì ferma nel buio del cielo a colmare una richiesta di vita infinita, chimerica, inappagabile». Sembra dunque una luce di segno opposto a quella intravista da Ginzburg nei racconti. Non «chiara», ma «nebbiosa», implica più che un movimento «rapido» una consistenza «ferma», per cui «il segreto di ogni conclusione» diventa una richiesta «inappagabile».
Tredici anni dopo l’antologia curata da Gianni Celati e pubblicata da Einaudi con il titolo Autore ignoto racconta, i testi brevi la cui «luce» era apparsa così «chiara e ilare» a Natalia Ginzburg sono adesso riproposti da Garzanti nella stessa redazione del 1963 e con lo stesso titolo: I racconti («I Libri della Spiga», pp. 334, € 25,00). Li correda una lunga, addirittura doppia Introduzione di Roberto Barbolini (forse appena fuori scala rispetto alla «nube fantasmatica» in cui Garboli fissava l’immagine esatta di questi scritti), oltre a un apparato critico che qualora stilato in forma lievemente meno laconica e arricchito di una pur stringata cronologia, molto avrebbe aiutato il lettore a orientarsi nell’opera di un narratore così disturbante e irregolare e inafferrabile, «inconoscibile» direbbe ancora Garboli, come Antonio Delfini. Il volume è composto dai dieci racconti già raccolti nel Ricordo della Basca e da due testi estremi aggiunti il primo nel 1956, il secondo nel ’63: Una storia, autobiografica quanto mesmerica prefazione d’autore, e 10 giugno 1918, primo capitolo di un romanzo che avrebbe dovuto intitolarsi Storia d’amore intorno a un quaderno smarrito. Il testo eponimo della raccolta originaria e i due interpolati, in particolare l’ultimo, sono i vertici della narrativa delfiniana. Ma cosa racconta il libro? Si tratta senza eccezioni di vicende, anche quando l’autore non ne sia l’esplicito protagonista o non utilizzi la prima persona, che ripetono sempre variandola la stessa narcisistica e autoreferenziale sospensione, un’infinita, confortevole, circolare attesa di ciò che deve accadere ma che puntualmente non accadrà. Soprattutto amori, ma anche carriere e avventure; comunque deviazioni o virate, fughe all’indietro da una felicità cui i personaggi credono invece di andare incontro. «La realtà è in gran parte nell’assurdo, in quell’immaginazione che è a un passo per diventare realizzazione, ma che non la diventerà mai. Nella vita, in fondo, la realtà non esiste», scriveva Delfini in un articolo pubblicato su «Oggi» nel 1933.
Poco importa se il protagonista è un contrabbandiere fornito di pistole, un maestro di musica o una modista abbandonata; un militare alla ricerca di un libro introvabile, un giovanotto in viaggio a cavallo per raggiungere la fidanzata di un tempo, il bambino innamorato della bionda ragazzina basca conosciuta al mare. I racconti di Delfini sono storie inappagate perché davvero inappagabili, il «segreto» della loro conclusione è la congenita impossibilità di raggiungerla. Solo a patto di conservare questa infinita dilazione possono rimanere fissati sulla pagina. «Perché non si scrive mai di ciò che esiste, ma soltanto di ciò che non esiste. E se, scrivendo, si crede che esista, è l’oggetto che non saprà mai di esistere in un modo in cui non si esiste: perché, se esiste, chi esiste non esiste nello scritto di chi scrive, nel quale solamente lo scrittore può talvolta illudersi di esistere», afferma Delfini in Una storia.
Non c’è futuro né passato in questo presente sempre in moto e tuttavia sempre immobile. La traiettoria disegnata dai racconti è un cerchio che si allarga in un lieto indugio finché non si smarrisce dentro un disperato vuoto di orizzonte. Seguendola proviamo la libertà di un criceto in corsa sulla ruota, la loro leggerezza somiglia allo sbattere di pinne che spinge un pesce dentro la vasca di un acquario, ci appare la loro ilarità come il sorriso della ballerina inchiodata in un eterno plié mentre gira sul carillon. Se c’è «luce» in questo mondo, così invitante e insieme così malinconico, si direbbe una luce velata non da «punti luminosi», quanto da una pioggia di corpuscoli. Non coriandoli, né petali di alberi sfioriti. Piuttosto cenere che la brezza solleva dopo un incendio.