Nei prossimi giorni verrà definita la platea per l’elezione del capo dello Stato. L’art. 83 della Carta recita: «All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato».

La nostra Costituzione consente così la partecipazione delle comunità regionali all’elezione del Presidente della Repubblica che, com’è noto, rappresenta l’unità nazionale. La ragione profonda della norma sta nella sua lettera. Tutti i cittadini, tutte le popolazioni della nostra composita realtà sono chiamati – attraverso i propri delegati – a dare legittimazione al ruolo di garanzia del Capo dello Stato. Un compito che, per prassi e per rendere più semplice la procedura, è stato attribuito ai Presidenti della Regione, del Consiglio Regionale e del Gruppo consiliare più numeroso della opposizione.

La Costituzione, però, non parla di delegati eletti esclusivamente all’interno del Consiglio Regionale, riservando a questo la possibilità di scegliere anche tra coloro che svolgono funzioni di governo locale o che non esercitano alcun ruolo politico istituzionale. In più la prassi istituzionale rischia in molte situazioni di escludere la partecipazione femminile. Così succederà in Sardegna se si procederà secondo tradizione.

In questi giorni il dibattito politico, l’informazione e la rete ospitano ampie discussioni sull’imminente elezione. Tutto si concentra sui requisiti del prossimo inquilino del Quirinale e sui nomi dei papabili. Si parla di trattative, gradimenti, veti, patti. Resta sullo sfondo la sofferenza della società italiana, il milione e 200 mila disoccupati, i milioni di precari, i tanti, laureati e non, costretti all’emigrazione, l’impoverimento drammatico delle famiglie, accompagnato da giganteschi fenomeni di lavoro nero e indicibili forme di sfruttamento.

Proprio per questo vorremo che il popolo – a cui spetta la piena sovranità – non fosse, anche solo simbolicamente, escluso da uno degli atti più rilevanti della nostra democrazia. Per questo Sel Sardegna e altre forze politiche di cultura democratica e di sinistra, che costituiscono il 50% della maggioranza al governo della Regione, hanno posto il tema del superamento della «prassi istituzionale». Si è sentito il dovere di assicurare – tra i delegati sardi – il rispetto dell’equilibrio di genere e la possibile partecipazione di più dirette espressioni delle istituzioni locali. Perché la Sardegna non può essere rappresentata da un giovane sindaco di uno dei piccoli comuni sardi? Perché non dare voce, tramite un loro amministratore, ai territori colpiti in profondità dalla crisi economica? Ci si è chiesti perché non possa essere delegata una lavoratrice tra le tante espulse dal sistema produttivo, devastato dalle politiche di austerità recessiva. Perché non dare al nuovo Presidente il valore aggiunto della espressione del voto di una/uno dei tanti cittadini che contrastano con coraggio il progressivo declino del nostro Paese. A tutto ciò il Pd sardo risponde con l’esaltazione dei valori della prassi.

Abbiamo fiducia che il Presidente della Repubblica venga eletto da un ampio schieramento di forze democratiche, che sia figura di alto valore morale e grande esperienza politico-istituzionale, apprezzato sul piano umano e sostenuto nel suo difficile compito. Per questo, più che alle prassi, dovremmo guardare alla sostanza dei comportamenti politici necessari, dovremmo interpretare la Costituzione per i forti principi di partecipazione democratica e centralità della volontà popolare che esprime con chiarezza. La prassi – sistematicamente travolta in Parlamento – rispunta invece, in modo così ingiustificato, tra i Consigli regionali di tutta Italia. Tanto da apparire luogo comune e resistenza conservatrice di ceto politico.