Porte chiuse. Dopo dieci giorni di detenzione in un centro di identificazione turco, a Gabriele Del Grande viene ancora impedito di incontrare un rappresentante dell’ambasciata italiana e un legale di fiducia. Ieri una delegazione composta dal vice console italiano a Smirne e da un avvocato turco si è recata nel carcere di Mugla, sulla costa egea meridionale del paese, dove è detenuto il blogger e giornalista toscano arrestato il 9 aprile dopo essere stato fermato per un controllo vicino al confine con la Siria. Visita abbondantemente e formalmente annunciata alle autorità turche dal nostro ambasciatore ad Ankara, Luigi Mattiolo, e prevista dalla convenzione di Vienna del 1963 firmata anche dalla Turchia. Tutto inutile. Le autorità turche hanno impedito l’ingresso al centro senza fornire alcuna spiegazione. Un comportamento che allunga più di un’ombra su una possibile soluzione rapida della vicenda e che aumenta le preoccupazioni della famiglia e degli amici di Del Grande, al quale ancora non è stato contestato nessun reato. La legge turca permette infatti di trattenere una persona fino a 14 giorni prima di formalizzare eventuali accuse. E sempre ieri, dopo che si appresa la notizia del fallito incontro, il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha telefonato al collega turco Mavlut Cavasoglu per chiedere l’immediata liberazione del giornalista. In serata fonti turche hanno reso noto di aver autorizzato per venerdì la visita della delegazione italiana a Del Grande.

«La situazione si è rivelata più complicata di quanto pensassimo ed è indispensabile una mobilitazione per la sua scarcerazione», ha detto ieri il presidente della commissione Diritti umani del Senato Luigi Manconi in una conferenza stampa convocata insieme al presidente della Fnsi Giuseppe Giulietti e ad alcuni colleghi ed amici del giornalista. «Gabriele Del Grande è detenuto in una prigione turca per non aver fatto nulla di diverso dal suo mestiere», ha proseguito Manconi che due giorni fa ha incontrato l’ambasciatore turco a Roma. Dall’incontro è emerso che il fermo di Del Grande sarebbe legato «a profili di sicurezza nazionale».

In Turchia Del Grande stava lavorando a un libro sul conflitto siriano e la nascita dell’Isis. Quando è stato fermato, il 9 aprile, è stato inizialmente rinchiuso in un centro di identificazione nella provincia di Hatay, al confine turco-siriano, dal quale poi è stato trasferito perché avrebbe cercato di intervistare i suoi compagni di detenzione. Un «comportamento irregolare» per le autorità turche, che una volta trasferitolo a Mugla lo hanno messo in isolamento e privato del cellulare. Solo due giorni fa Del Grande è riuscito a telefonare alla compagna, Alexandra D’Onofrio, alla quale ha comunicato di voler cominciare uno sciopero della fame. «E’ completamente all’oscuro di quanto possa durare il fermo e si rifiuta di rilasciare informazioni sul suo lavoro», ha spiegato ieri la donna.

L’attività d Del Grande (che è anche regista, suo è il documentario «Io sto con la sposa») sembra del resto essere il vero motivo del suo fermo. Oltre a interrogarlo tutti i giorni, le autorità turche stanno passando al setaccio il materiale raccolto dal giornalista, probabilmente alla ricerca di interviste a intellettuali e cittadini curdi. Cosa che basterebbe per contestargli un’eventuale accusa di propaganda o sponsorizzazione del terrorismo. «Bisogna agire in fretta, senza adottare la solita politica italiana del mantenere il silenzio per permettere alla diplomazia di lavorare, perché questo può portare alla presentazione di inesistenti capi d’accusa», ha spiegato Giulietti. «Gabriele è solo, il suo è un grido disperato di aiuto», ha scritto invece la famiglia di Del Grande in un messaggio inviato in occasione della conferenza stampa. «La sua voce è arrivata come un gesto disperato di aiuto – hanno proseguito i familiari facendo riferimento alla telefonata del giornalista – la sua frustrazione era palpabile per il fatto di trovarsi in uno stato di privazione della sua libertà e dei suoi diritti, senza essere accusato di nessun reato penale». «Chiediamo – prosegue l’appello – al ministro Alfano, ai parlamentari e ad ogni rappresentante del popolo italiano di mobilitarsi con noi, di fare tutto quello che è in loro potere per riportare Gabriele a casa dalla sua famiglia, dai suoi bambini».