Resiste su quotazioni del tutto ridimensionate, nel senso comune dei lettori, l’opera di Giosuè Carducci che tra l’Otto e il Novecento incarnò l’idea di poesia fungendo da prima cuspide di un trio, con Pascoli e d’Annunzio, che a lungo parve l’ultima possibile terna di classici della nostra letteratura. Non lo aveva aiutato la sopravvalutazione, in chiave salutista e anti-decadente, di Benedetto Croce che scambiava per l’ultimo dei classici un estremo romantico ossessionato viceversa dal «desiderio vano de la bellezza antica», come suona una sua clausola celeberrima, né l’avrebbe certo favorito, nel secondo dopoguerra, la canonizzazione del suo allievo invece più degenere, Giovanni Pascoli, quale archetipo aggettante sul Novecento italiano. «L’entità del debito contratto dalla poesia novecentesca nei confronti di Carducci resta ancora, in massima parte, da valutare»: così infatti Federico Casari e Carlo Caruso aprono un’ottima guida, Come lavorava Carducci (Carocci editore «Bussole», pp. 143, € 12,00), dal titolo evidentemente continiano. Lo scopo è quello di fissare la dinamica della scrittura poetica carducciana nel combinato disposto, volta a volta, di suggestioni e imprinting, procedure redazionali (per vere e proprie ondate correttorie, è stato detto) e infine editoriali.
Il soggetto è un poeta che sappiamo essere contemporaneamente un celebrato docente universitario, per mezzo secolo a Bologna, un grande filologo umanista (sia pure estraneo al metodo di Lachmann), un organizzatore di cultura (presidente della Commissione per i testi di lingua, promotore fra l’altro della edizione postuma dello Zibaldone), infine un militante politico, giacobino e massone repubblicano ab origine poi divenuto ammiratore di Francesco Crispi e laudatore della monarchia sabauda; il suo contesto quotidiano è la dimora bolognese sulle mura di Porta Mazzini con una biblioteca di 40.000 volumi e un archivio affollatissimo di testimoni e già ordinato per posteri come fosse il risultato di una «recensio d’autore» preparata in anticipo ai posteri. Tuttavia, notano Casari e Caruso, alla sovrabbondanza dei documenti relativi alle singole poesie corrisponde una reticenza sulla formazione delle raccolte che costellano la tutt’altro che lineare parabola carducciana i cui scompensi, specialmente politici dell’ex mangiapreti Enotrio Romano cantore di Satana, si vorrebbero dissimulati e/o rimossi nell’auto-antologia Poesie MDCCCL-MCM, edita da Zanichelli nel 1901 e decine di volte ristampata fino agli anni settanta, dove le sezioni interne fissano una volta per sempre il decorso che muove per proverbio da Juvenilia e Levia Gravia, trascorre in Giambi ed Epodi e Rime Nuove, per culminare in Odi barbare e Rime e ritmi. (Un ritratto preciso e insieme affettuoso del Carducci già Carducci al lavoro nella sua biblioteca-museo è nel racconto L’affittuario della Regina, con le foto di Antonio Masotti e le didascalie di Renzo Renzi, in appendice alla raccolta saggistica complessiva di un allievo della prima cerchia, Manara Valgimigli, Carducci allegro, a cura di Maria Vittoria  Ghezzo, Cappelli 1968).
Merito di Casari e Caruso, dunque, non è solo ribadire l’importanza dei padri nobili (Orazio, Petrarca, Poliziano, Parini oltre a, piacesse o meno a Croce, Platen, Heine, Hugo e Baudelaire) ma isolare e dare un contesto concreto sia alla capacità di produrre quelle immagini vivide e spiazzanti che proprio Orazio definiva callidae iuncturae, giunzioni ardite, sia al metabolizzare la quantità infinita di fonti a disposizione di chi fu detto per antonomasia poeta-professore. Quanto a questo, viene a taglio il lavoro di un decano della filologia italiana, Roberto Tissoni, Frammenti di esegesi carducciana (a cura di Federico Casari, Edizioni di Storia e Letteratura «Raccolta di Studi e Testi», pp. XXXIV-228, € 38,00): volume che resuscita il fantasma di una antologia commissionata da Mattioli nel 1970 per la sua Ricciardi, ufficiosamente edita con uno Specimen di pochi esemplari nel ’75 (qui lo testimonia in appendice un carteggio con il grande antichista Piero Treves) e infine abbandonata, scrive oggi l’autore nella premessa, per «l’assenza di una sistematica storicizzazione delle fonti letterarie carducciane (…) allo scopo di pervenire appunto testo per testo, luogo per luogo, ad esatte misure del rapporto ripresa/variazione fra lui autore imitante e i vari autori imitati». Il frammento proposto è relativo a Juvenilia, Libri I-V, 1891, il commento a maglie strettissime per ogni singolo testo è ordinato su due fasce, la prima di dati d’ordine genetico e più generalmente contestuali, la seconda di rilievi che oggi diremmo di natura intertestuale.
Il lavoro di Tissoni è implacabile, ammirevole, il suo orecchio (il talento di captare altre voci nella voce del Carducci) sul serio è strepitoso eppure, leggendo, ci si chiede se davvero si tratti di restituire a oltranza la capacità imitante riguardo agli autori eternamente, necessariamente imitati, quando andrebbe anche ricordato che da qualche parte Carducci in persona parla con ironia di critica «fontaniera». Una simile filologia è tecnicamente perfetta ma, sia detto con il dovuto rispetto, se lasciata a sé stessa ha qualcosa di claustrofobico e di persino soffocante. Fosse pure e soltanto il poeta dei pochi testi e tra i più scolastici che ci ostiniamo a rileggere tra i quali Pianto antico, Traversando la Maremma toscana, Il Comune rustico, Alla stazione (ma non è poi tanto corposa la migliore tra le antologie correnti, Poesie, Feltrinelli 2007, per l’ottima cura di William Spaggiari), è da dubitare essi siano solo il risultato della metabolizzazione di esclusive fonti letterarie, perché dopo tutto nemmeno i poeti, neanche i più letterati, camminano sulla testa. Perciò colpiscono alcuni vuoti tra i riferimenti bibliografici di Casari e Caruso: non c’è Storia del Carducci, ’49, di Natalino Sapegno (ma non fu – va anche detto – il capolavoro di quel grande storico della letteratura), non c’è Carducci senza retorica, ’57, di Luigi Russo, così come manca il saggio fondamentale di Walter Binni, Linea e momenti della poesia carducciana, ’57, che per primo e più nitidamente colse in Carducci la natura del pattern percettivo, né viene infine rammentato il bellissimo saggio di Luigi Baldacci scritto negli anni più grami della ricezione carducciana, i pieni anni ottanta, poi raccolto nell’appena postumo Ottocento come noi (Rizzoli 2003). Baldacci lo legge come un Meyerbeer della poesia, un poeta dell’Ottocento che però sa molto di Novecento e anzi Baldacci (parlando di «oltranza di ricerca e inquietudine di sperimentazione» non solo riguardo alla metrica delle Odi barbare) lo mette alle spalle dello stesso Pascoli quale maestro segreto, ovvero non riconosciuto, da cui si dirama il Novecento italiano per cui anche se non si spinge fino in fondo all’Ignoto per trovare il Nuovo, secondo l’ingiunzione di Baudelaire che fonda la metafisica della poesia contemporanea, egli «non brucia mai le proprie esperienze, le rimette sempre in circolo».
È quel che Casari e Caruso spiegano con dovizia di rilievi, consapevoli che la verità di Carducci è oltre i confini della sua biblioteca: perciò muovono dai silenzi chiusi dentro l’auto-antologia terminale per scandire la parabola di un uomo talora impenetrabile e, comunque, troppo complesso e contraddittorio per essere il poeta di un catalogo bibliografico.