Il crimine paga. Basta accendere la televisione per rendersi conto che, al di là dell’attenzione spesso morbosa per i casi di cronaca nera, le serie tv più viste in Italia non sono ancora le storie complesse e raffinate provenienti dagli Stati uniti come Breaking Bad o Mad Men. Sulla nostra tv generalista, al netto di Don Matteo , a tenere banco sono i procedural, i polizieschi in cui a ogni puntata corrisponde una storia autoconclusa con gli stessi protagonisti. Stalker e Chicago Pd sono solo gli ultimi arrivati di una lunga serie: Csi (nelle sue varianti Las Vegas, Miami, New York), Rizzoli & Isles, Bones. Tanto che Mediaset e Discovery Italia hanno dedicato al crimine due canali tematici: Top Crime e Giallo.                           

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Ma tra i procedural che affollano la nostra televisione un discorso a parte – anche solo per longevità e successo – lo merita Law & Order, la serie nata nel 1990 e che nel corso dei suoi vent’anni di messa in onda ha dato vita a quattro spin off, di cui uno è ancora in corso, e un adattamento inglese (Law & Order Uk). «Nel sistema penale statunitense – recita il disclaimer che apre ogni puntata – lo Stato è rappresentato da due gruppi distinti e di uguale importanza: la polizia, che indaga sul crimine, e i procuratori distrettuali, che perseguono i criminali. Queste sono le loro storie». La serie, ambientata a New York, nasce infatti da una semplice intuizione del creatore Dick Wolf: unire due dei generi più amati, il poliziesco e il giudiziario, in una sola puntata di un’ora divisa equamente tra le indagini della polizia sul crimine del giorno e il processo agli imputati del reato.

A distinguere Law & Order dagli altri polizieschi non è però solo lo spazio dedicato al processo – in cui in un rovesciamento delle convenzioni del genere è la procura distrettuale e non l’avvocato della difesa a fare la parte dell’eroe – ma l’alto livello di realismo con cui sono descritte le attività di polizia e procura. I mandati di cattura, i Miranda warnings – i diritti che devono essere letti a chi viene posto in arresto – i mille cavilli con cui è possibile tenere fuori delle prove da un processo, lo stretto «abbraccio» tra sistema giudiziario e politica statunitensi, assumono una rilevanza e uno spessore mai avuti prima in un genere che ha sempre prediletto l’aspetto muscolare o geniale del lavoro della polizia e l’arringa ispirata dell’avvocato nelle sale di tribunale.

Nel 1999 esce il primo spin-off di Law & Order: Svu – in Italia Unità vittime speciali – con protagonista una squadra di poliziotti newyorchesi dedita all’indagine dei soli reati a sfondo sessuale. Svu, giunta oggi alla sua sedicesima stagione e già confermata per la diciassettesima, ricalca con precisione la struttura del suo predecessore, anche se col tempo emerge, rispetto al «democratico» I due volti della giustizia, un’eroina indiscussa: la detective Olivia Benson (Mariska Hargitay) che ricorda da vicino la Clarice Starling del Silenzio degli innocenti nel suo essere mossa da un coacervo di indomito altruismo e di atavico senso di colpa – il padre, mai consegnato alla giustizia, è lo stupratore di sua madre.                      

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Come in Law & Order, anche Svu è stato il banco di prova di tantissimi attori oggi famosi, che hanno fatto le loro prime apparizioni come killer, stupratori o comparse nel procedural più longevo di sempre: Bradley Cooper, Adam Driver, Michael Pitt, Jennifer Gardner sono solo alcuni dei nomi più noti. Col crescere del successo di entrambe le serie, una lista ancora più lunga di attori famosi hanno contribuito con dei cammeo: il primo è quello, nel 1999, di Julia Roberts nei panni della party planner Katrina Ludlow, indagata per essere stata a letto con la vittima subito prima della sua morte. Sharon Stone, invece, è stata l’assistente procuratore distrettuale Jo Marlowe in ben quattro puntate dell’undicesima stagione di Svu, mentre in uno degli episodi più belli il cattivo da consegnare alla giustizia era un folle capopopolo interpretato di Robin Williams. Tra le guest star, il sindaco di New York Rudy Giuliani, nei panni di se stesso, nominava la nuova procuratrice distrettuale in una puntata del 2000 di I due volti della giustizia. E pochi giorni fa è stato annunciato che il vicepresidente di Obama, Joe Biden, prenderà parte a una puntata della nuova stagione di Svu.

In entrambe le serie, le sceneggiature rivisitano spesso dei crimini reali, ma in Unità vittime speciali è fortissima anche la componente «didattica», il desiderio di «insegnare» al pubblico la complessità dei casi di stupro, la facilità con cui si scivola nella colpevolizzazione della vittima, il difficile lavoro di chi deve confrontarsi con due versioni contrapposte dello stesso evento. Un intento quasi dichiaratamente educativo, in un mondo in cui ancora in cui è ancora intramontabile il «se l’è andata a cercare».
In questo Svu è molto diverso da I due volti della giustizia, in cui il personaggio più amato e longevo – l’assistente procuratore distrettuale Jack McCoy (Sam Waterston) – è anche il più ambiguo, ossessionato fino quasi alla scorrettezza dalla punizione per i colpevoli: «Niente patteggiamenti per nessuno. Impicchiamoli tutti», diceva in una puntata alla sua assistente Abby Carmichael.

Anche I due volti della giustizia è mosso però dal medesimo ottimismo idealista nei confronti un sistema giudiziario ritenuto fallibile ma fondamentalmente equo. Un’illusione che si frantuma nel confronto con la realtà, ma espressione di un desiderio che è la spina dorsale della serie, parte del segreto del suo successo. Anche per chi guarda dall’Italia.