Google conosce di noi anche quello che non ci ricordiamo più: dove siamo stati, con chi, per quanto tempo, e quello che abbiamo fatto. È un mostro tentacolare, una potenza, che ha smesso di funzionare per un’ora intera qualche giorno fa. Poi è accaduto di nuovo, con Gmail, il suo servizio di punta insieme al motore di ricerca tanto famoso da generare un verbo: googlare. Chi non lo usa? 

Ma l’interruzione dei suoi servizi all’ora di pranzo di lunedì 14 dicembre, ci ha catapultati in una distopia da guerra informatica: gli studenti hanno smesso le lezioni a distanza su Google Classroom, i gruppi di lavoro non hanno potuto redigere e scambiarsi documenti, le aziende non sono riuscite ad accedere a servizi necessari ai loro progetti: Drive, Meet, Docs. 

Insomma niente posta, niente video, niente documenti, niente di niente. Molte le ipotesi, nessuna certezza, tranne la spiegazione di Google Cloud: un errore di autenticazione che ha causato un sovraccarico di memoria nei suoi server. 

Per un’azienda sinonimo di Internet, che ha proprie infrastrutture presidiate da ingegneri esperti e ben pagati, si possono fare molte illazioni per questa improvvisa interruzione di servizio (outage, in gergo). Ma non è questo il punto. Google ha riconfigurato la stessa idea che abbiamo del Web e il Googledown ci ha fatto capire quanto siamo dipendenti dal digitale e dall’infrastruttura di questa azienda americana, Alphabet, sotto al cui cappello Google cresce.

Google è ovunque, e anche se non usiamo direttamente i suoi servizi, è possibile che ne stiamo usando librerie e procedure (le API), un pezzo di codice, o i suoi server. 

Proprio per questo è ora di pensare a come degooglizzare la nostra vita. Non è facile né immediato. Come è scritto sul sito di WuMing, il degoogling è un processo, un fare inchiesta, tentare e praticare alternative, non significa sventolare una bacchetta magica. 

È vero che Google “controlla” la rete. I suoi servizi sono tanti, in gran parte gratuiti e open source: YouTube, Gmail, Google Photos, Google Drive, Google Docs. Il suo sistema operativo è il più diffuso al mondo per i cellulari Android, Google Maps è la nostra cartina geografica e Google Search la nostra memoria. Ma ci sono delle alternative. In termini di qualità della ricerca Duck Duck Go e Qwant funzionano abbastanza bene: l’unica remora è che non profilandoci possono sembrare meno accurati nei risultati. Al contrario significa che rispettano di più la nostra privacy. 

Google Chrome, il browser, è bello e funzionale, ma è Mozilla Firefox il più veloce che permette di aggiungere centinaia di estensioni utili, di sincronizzarlo, di controllare se la nostra email è stata bucata. E lo fa senza collezionare troppi dati personali.

Gmail, gratuita e potente, grazie agli algoritmi di apprendimento automatico è capace di scrivere intere frasi al posto nostro senza che noi le digitiamo per intero: è la funzione di autocompletamento sviluppata a partire dalla lettura umana della nostra posta da parte degli operai di Google. L’alternativa? Protonmail: sicura, facile, veloce.

Di Youtube è difficile fare a meno. Ha permesso di passare dalla tv di massa alla massa delle tv: ogni canale è una piccola televisione. Anche qui ci sono delle alternative come Vimeo, Dailymotion, e Vevo, da usare solo dopo averne letto le policy.

Ieri la Commissione Europea ha presentato due proposte per favorire la concorrenza e tutelare i consumatori nel mercato digitale: un primo passo per porre dei limiti allo strapotere di Google e dei suoi fratelli. Un primo passo verso il degoogling, forse.