Il nostro tempo vede nel discorso dominante una contraddizione insanabile: da un lato c’è il “pericolo nazionalista”, o protezionista, o sovranista, che rischierebbe di minacciare la prosperità fornita dalle istanze del free market. Dall’altro ogni istanza sociale che cozza contro la logica dei mercati viene stigmatizzata e derisa, poiché si infrangerebbe contro l’onnipotenza dei mercati finanziari, che non si possono combattere, ma ci si può solo adattare. Ma se sono così imbattibili, dove starebbe il pericolo? Se la globalizzazione finanziaria è così salda, che bisogno c’è di contrastarne gli avversari?

La soluzione va trovata recuperando i fondamenti economici delle istanze politiche, non riducendole a malattie dello spirito o “stati d’animo”, ma alla luce delle mutazioni dell’accumulazione del profitto e del mondo del lavoro e delle imprese. Per iniziare una simile disamina occorre prendere le mosse dal fatto che la globalizzazione della finanza non è più la stessa di dieci anni fa.

Fra i flussi di capitale i più famosi sono gli investimenti diretti esteri (Fdi o Ide), molto popolari fra i politici: «Bisogna attrarre investimenti» è una delle frasi preferite dei talk-show economici. Ma varie fonti vedono un crollo netto: secondo una recente ricerca Oecd sono diminuiti del 20% nella prima metà del 2019, proseguendo un declino già netto nel 2018. Si distinguono gli Usa in tal senso, per cui vengono citate la legislazione fiscale e la guerra commerciale con la Cina. Il monumentale World Investment Report 2019 dell’Unctad conferma: calcola una caduta globale di 1,3 trilioni; i flussi verso i paesi avanzati sono al punto più basso dal 2004. Tutta colpa di Trump dunque? Non proprio.

Oramai i dati sono schiaccianti: la globalizzazione finanziaria è in pieno recesso, e non da poco. Il report di McKinsey The New Dynamics of Financial Globalisation del 2017 stima che il totale di flussi finanziari – investimenti diretti, obbligazioni (titoli di debito), remunerazioni azionarie, prestiti, ed altri strumenti – sia caduto dal 2007 del 65%.

Le motivazioni sono diverse: una il ritiro della banche dell’eurozona, le più internazionalizzate del mondo, da molti mercati esteri. La creazione della moneta unica ha visto i crediti finanziari degli istituti dei paesi membri passare da 4,3 a 15,9 trilioni fra 2000-2007. Incluso il prestito interbancario fra le banche di altri paesi dell’eurozona, che si è bloccato. La caduta di 7,3 trilioni fra 2007-16 è dovuta a tale stop per la metà. A ciò si aggiunge la maggiore prudenza indotta dalle perdite dovute a sottovalutazioni del rischio.

E non si tratta solo di un fenomeno europeo: anche banche britanniche e svizzere hanno fatto lo stesso, e così anche gli Usa.

Altri fattori rilevanti sono l’orientamento di molti paesi a privilegiare il credito interno rispetto a quello transfrontaliero; la considerazione di maggiori potenzialità di profitto nel contesto domestico rispetto all’estero, anche per nuove forme di regolamentazione. Ed infine i test di solidità che hanno obbligato molti istituti a rimpinguare la loro capitalizzazione per paura di non corrispondere ai requisiti.

Contrariamente alla mistica dei Fdi, il loro effetto non è necessariamente positivo; persino il Fmi ammette in uno studio del 2015 che essi «incrementano la diseguaglianza tanto nei paesi avanzati che in quelli in via di sviluppo». Ma nel decennio della crisi la diseguaglianza è ancora aumentata. Quindi se la globalizzazione finanziaria è stata fonte di danni, non tutti i modi di recedere da essa sono benefici, perché si è trattato di una ritirata strategica guidata dai poteri dominanti in una articolazione meno “mondialista”, e non da una politica redistributiva al servizio delle classi lavoratrici. Tale compito è quello delle forze sociali emancipative, se riescono a non farsi più abbagliare dai miti: alla munificenza della globalizzazione ormai può credere solo l’uomo della strada, ed è ora di rincasare.