Check-Point a metà percorso: alla fine della prima settimana della Cop26 a Glasgow, per i manifestanti, in tutto il mondo, il risultato è già un «fallimento», una fiera di «greenwashing» e di ipocrisia. Per i diplomatici e i negoziatori non è ancora detta l’ultima parola. Intanto, fanno valere che è stato accettato l’obiettivo di agire per restare entro un riscaldamento di 1,5 gradi (mentre nell’Accordo di Parigi si parlava di restare al di sotto di 2 gradi).
Per il direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia, Fatih Birol, c’è addirittura «una grande notizia»: se gli stati rispetteranno tutti gli impegni presi durante la prima settimana di Cop26, attraverso le numerose alleanze ad hoc che si sono concluse, il riscaldamento potrà essere contenuto a 1,8 gradi nel 2100. È più di 1,5 gradi, ma monto meno di +2,7 gradi, che era l’allarme dell’Onu alla vigilia della Cop. Però, anche l’ottimista Birol invita alla «prudenza».

Il segretario generale dell’Onu, Antono Guterres, insiste sul «deficit di credibilità» degli impegni presi. Difatti, già si vedono le prime crepe: l’Indonesia ha già fatto marcia indietro sulla rinuncia alla deforestazione, che prima aveva accettato, il Brasile ha promesso cose che smentisce ogni giorno nei fatti ecc. Inoltre, molti impegni riguardano il 2050 o oltre, mentre quando la data è più riavvicinata, il 2030, gli impegni si fanno più vaghi. Gli ottimisti vogliono però vedere il bicchiere mezzo pieno: una buona percentuale di paesi sui 197 implicati ha dato un accordo di principio per uscire dal carbone tra il 2030 e il 2040. 82 promettono una neutralità carbone per metà secolo (sono 13 in più del conteggio pre-Cop). Venti paesi (ci sono anche gli Usa) e 5 banche pubbliche hanno promesso di mettere fine ai finanziamenti internazionali dei combustibili fossili. Più di cento paesi sono a favore della fine della deforestazione entro il 2030, un numero analogo ha promesso di tagliare le emissioni di metano del 30% per quella data.

C’è addirittura la mirabolante ipotesi dei gestori di 130mila miliardi di capitali, preparata dall’ex governatore della Bank of England, Mark Carney, per la svolta su investimenti verdi. Già 150 paesi, responsabili dell’80% delle emissioni di Co2, hanno presentato all’Onu le rispettive Ndc (Nationally Determined Contributions). Ma se si analizzano i contenuti delle Ndc il bicchiere diventa subito mezzo vuoto: questi impegni nazionali porteranno a un aumento delle emissioni di Co2 del 14% nel 2030, mentre per rispettare l’obiettivo di +1,5 gradi bisognerebbe tagliare l’effetto serra del 45% in meno di una decina di anni. A Guterres cadono le braccia: «regnano mancanza di credibilità e confusione – ammette – ognuno dà alle parole un senso differente, e misura le cose in modo diverso». Laurent Fabius, che a Parigi nel 2015 aveva in mano il martelletto che ha battuto sul tavolo per segnare il successo dell’Accordo, dice che a metà percorso a Glasgow «c’è un’atmosfera meno pessimista di qualche settimana fa».

Ma da lunedì i vari negoziati entrano nel difficile. A Glasgow devono essere definite le regole per l’applicazione dell’Accordo di Parigi. Attorno ai vari tavoli ci saranno i ministri. Alok Sharma, presidente della Cop26, è in allarme: «questa settimana non sarà calma». Sharma sottolinea: «se i paesi hanno firmato impegni, ovviamente, devono rispettarli». E qui c’è il dettaglio che può far deragliare tutto: non ci sono strumenti, per non parlare di sanzioni, per obbligare un paese a far seguire le azioni alle parole.
Il passato non è consolante: l’accordo sulla deforestazione, per esempio, riprende la Dichiarazione di New York del 2014, che prevedeva il blocco per il 2020 e non è stata rispettata, quindi lo sposta al 2030, mentre i 100 miliardi l’anno che i paesi ricchi hanno promesso a quelli poveri è un impegno preso 12 anni fa, non ancora mantenuto e oggi riproposto per il 2023.