Prima la maxi-operazione contro la ‘ndrangheta condotta dal Gratteri con 334 arresti e 5 divieti di dimora, il giorno dopo gli arresti eccellenti in Piemonte con gli stessi capi d’imputazione e il solito intreccio tra ‘ndrangheta, politica, imprenditori. Ormai è chiaro: non c’è regione italiana dove non sia penetrata la ‘ndrangheta, dove non abbia messo le mani sul potere economico e politico. Lo sappiamo da anni, ma ogni volta ci stupiamo perché è difficile ammetterlo: il nostro Paese è in buona parte governato da ‘ndrangheta, camorra, mafia e sacra corona unita, che si sono trasformate da arcaiche organizzazioni criminali, legate a vecchi riti e tradizioni locali, in borghesia mafiosa capace di gestire flussi di denaro enormi. Una classe sociale, emergente già negli anni Settanta, che grazie allo straordinario sviluppo nel mercato delle droghe, è riuscita ad accumulare enormi capitali che ha reinvestito in attività legali e nella corruzione degli apparati pubblici.

Senza voler giustificare questo fenomeno, si può dire che questa è stata la risposta del Sud, impoverito e abbandonato dallo Stato, una sorta di Nemesi storica. Sicuramente lo è stato per il cuore della ‘ndrangheta più potente, quella del triangolo Africo-Platì-San Luca, dove numerose famiglie di pastori sottoposti allo sfruttamento feroce dei proprietari terrieri (ancora negli anni Cinquanta venivano pagati in natura e vivevano come “sardine” in scatola, in casupole malsane) hanno abbracciato la via criminale al capitalismo, prima con i sequestri di persona (anni Settanta) e poi con il controllo crescente del mercato della droga. La loro forza sta nella rabbia sociale, nella coesione del clan familiare, nella sete di potere. Così in trent’anni sono diventati talmente potenti da aver sostituito la mafia siciliana nel controllo del mercato a più alto tasso di profitto: quello della cocaina.

Come ci ha insegnato il grande Fernand Braudel il motore del capitalismo è l’extra-profitto, grandi rischi e grandi profitti, che si basa su uno scarto di informazione tra domanda e offerta. I mercati illegali – droga, armi, rifiuti tossici, beni archeologici – offrono una grande opportunità per accumulare in tempi brevi grandi capitali e quindi guidare, attraverso gli investimenti, il processo di accumulazione capitalistico. Ed è nel nostro Paese che questo processo si è registrato trovando una resistenza ondivaga da parte dello Stato, con alcuni suoi servitori che ci hanno rimesso la vita ed altri che sono entrati in rotta di collusione con le mafie.

Come è noto, siamo il Paese che ha la migliore legislazione antimafia, grazie al sacrificio di Pio La Torre (1982) che ha fatto varare dal Parlamento italiano la prima legge al mondo che prevede il sequestro dei beni dei mafiosi. Successivamente, grazie al grande impegno di Libera con la legge 109/96 i beni confiscati alla borghesia mafiosa devono essere utilizzati a fini sociali. Una vera e propria rivoluzione in un Paese capitalistico: una redistribuzione della ricchezza dal capitale mafioso alle cooperative sociali, associazioni, enti pubblici.

Complessivamente, in questi ultimi venti anni sono migliaia i beni confiscati per svariati miliardi, in Calabria e nel resto d’Italia, per un valore di circa 30 miliardi al 2018.

Questa guerra alla ‘ndrangheta ha portato come primo risultato la fuga dei capitali mafiosi dalla Calabria, che nell’ultimo decennio si sono trasferiti decisamente verso il Nord Italia, Europa, e resto del mondo. Su quello che si stima come fatturato annuo di 55 miliardi, la ‘ndrangheta ne realizza 44 nel Nord Italia ed Europa.

Il secondo effetto è stato quello della chiusura in Calabria di ipermercati, alberghi, ristoranti, aziende agricole, ecc. Purtroppo, la lentezza burocratica ha impedito che una parte significativa di questi beni (circa 17.000 devono essere ancora assegnati!) fossero valorizzati e spesso sono stati portati al fallimento, con la relativa perdita di migliaia di posti di lavoro in una terra con un altissimo tasso di disoccupazione. Risultato finale: la benemerita azione repressiva dello Stato da sola non solo non basta, ma è addirittura controproducente sul piano del consenso sociale.

Ci vorrebbe un grande intervento pubblico compensativo, con assunzioni in settori chiave della PA (sanità, servizi sociali, Università, ecc.) e investimenti mirati alla valorizzazione delle imprese “sane” sopravvissute. Ed invece… Arriva il dl 113/18, noto come Decreto Sicurezza 1, con cui i beni confiscati di valore superiore ai 400 mila euro vengono messi all’asta e quelli di valore inferiore dati a trattativa privata. Fantastico! Ecco come e perché la Lega ha riscosso un grande successo elettorale alle ultime elezioni.

Siamo ad una svolta storica: o va avanti il contrasto alla borghesia mafiosa attraverso un processo di redistribuzione della ricchezza e un intervento fattivo dello Stato che risponda ai bisogni sociali delle popolazioni meridionali, oppure il capitale mafioso si riprende i beni confiscati e fa una bella pernacchia alle istituzioni.