Alla fine, come era prevedibile, il maxi-emendamento di conversione in legge del decreto Poletti-Renzi sul lavoro è passato al Senato, grazie all’ennesima questione di fiducia imposta da una maggioranza governativa sempre più insicura. Giova ricordare che la stessa questione di fiducia era stata posta poche settimane fa alla Camera dei Deputati, dove si tornerà a brevissimo, per la definitiva approvazione della legge. Perché siamo ancora dinanzi a un bicameralismo paritario e perfetto; ed entro il 19 maggio l’identico testo normativo deve risultare approvato da ambedue i rami del Parlamento.

Questo decreto è il primo tassello del JobsAct che verrà nei prossimi mesi, con la legge delega «in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e politiche attive», attualmente sepolta in qualche commissione parlamentare. Un tuffo definitivo nell’ideologia del Workfare: cioè del lavoro a tutti i costi per le persone e a costo zero per le grandi imprese. La penuria di posti di lavoro genera un effetto domino di ricattabilità e subordinazione per le persone. Per sostituire una qualsiasi visione di Welfare universale, che pure l’arguto Renzi aveva evocato nella sua corsa alla segreteria del Pd. «Ripartire da chi è rimasto più indietro»: questa la sua retorica da Twitter. Ma sotto il tweet, niente.

La solita miseria stracciona: accontentavi di quello che passa il convento. Come se il lavoro si riuscisse a creare per decreto: regio o legge, che sia. In un cupo e splendido libro di qualche anno fa si prevedeva: «anche se non c’è lavoro, ci sarà. E se dovremo inventarlo, lo inventeremo! Lo simuleremo attraverso macchine, attraverso immagini tridimensionali». Era La scuola dei disoccupati (Isbn edizioni) di Joachim Zelter, un letterato tedesco: oscuro presagio del nostro intollerabile presente. Ci pensa il governo Renzi, di Legacoop e Cl, a realizzare questo incubo.

Se la questione interessasse davvero quel che rimane di una pur vaga opinione pubblica sensibile e dissenziente, oltre che di una sinistra politica e sindacale all’altezza dei tempi, ci sarebbe ancora il tempo di mobilitarsi. Ma chi sarebbero i soggetti che potrebbero attivarsi? Qui siamo oramai ridotti alla pantomima, al gioco delle parti, ad una versione infamante della commedia dell’arte. Quello a cui si assiste da troppo tempo è una serie di schermaglie tra logorati soggetti sociali e politici costretti a dividersi una fetta di torta sempre più sottile e inconsistente. Del resto il titolo del decreto in conversione è epico ed epocale al contempo: «disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese».

Siccome le parti in commedia sono sempre le stesse – governo, sindacati confederali e confindustria – chi tra loro può essere contrario a rilanciare l’occupazione e alleggerire il costo del lavoro per le imprese? Con l’aggravante che al governo ci sono anche i rappresentanti di quel fantomatico Terzo settore, che da troppi anni sembra venire in soccorso della privatizzazione del Welfare e di condizioni di lavoro insopportabili.

Ci sarebbe bisogno di qualcosa che spezzi quest’incantesimo che inchioda il Bel Paese a una fotografia scattata quarant’anni fa: quella del patto dei produttori, che non producono più nulla, se non ricatti e povertà. Ma nessuno sembra capace di proferire una voce fuori dal coro. Certo non un sindacato ostaggio della sua trentennale storia di sconfitte. Soprattutto quando si è di fronte a un Governo che regala quella mancia ai lavoratori subordinati che da tanti anni lo stesso sindacato confederale rivendica. E non sarà un’oscura rottamazione congressuale a recuperare il tempo perduto.

Eppure la battaglia, parlamentare e delle idee, sarebbe ancora possibile. A partire da un Welfare universale e attivo, che tuteli le persone e non le condanni ai ricatti quotidiani. Ma nessuno la porterà avanti. È così da troppi anni. Tutti a spartirsi quel che rimane di quella torta sempre più inconsistente, oltre che sciapa. Tutti trincerati dietro le proprie, inossidabili certezze. Quelle della miseria individuale e della sconfitta collettiva.