Quando il Presidente Mattarella rifiutò la nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia, paventando il rischio di sconvolgimenti finanziari e invocando i suoi doveri costituzionali a tutela del risparmio, alcuni commentatori ne criticarono l’operato mettendo in luce che altri componenti la lista dei ministri risultavano altrettanto pericolosi per delicati beni costituzionali (l’uguaglianza, la non discriminazione, la progressività fiscale, i diritti) e stigmatizzarono le ragioni che avevano indotto il Presidente a far convergere le proprie preoccupazioni esclusivamente sui profili di natura economico-finanziaria.

Altri commentatori replicarono che, anche a volerle condividere, le critiche sottovalutavano il fatto che, mentre la nomina di Savona rappresentava, di per sé, un pericolo in atto per la tenuta delle finanze pubbliche e la permanenza dell’Italia nell’Euro, altre nomine risultavano, tutt’al più, un pericolo in potenza, affrontabile dal Presidente nel momento in cui si fosse concretizzato.

Ebbene: con il decreto legge in materia di immigrazione il momento sembra essere arrivato, ma la reazione presidenziale è risultata più prudente di quanto, dato il precedente, ci si poteva aspettare.

Ci si può limitare a due questioni. La prima ha a che fare con la presunzione di non colpevolezza e con il diritto di difesa, principi che trovano spazio nella nostra cultura giuridica almeno dal 1215, quando la Magna Carta sancì, tra l’altro, che nessuno può essere non solo «preso o imprigionato», ma nemmeno «bandito o esiliato» senza un giudizio definitivo di condanna. Ora, in virtù di quanto sancito dal recente decreto, il richiedente asilo sottoposto a procedimento penale o condannato con sentenza non definitiva per una serie di reati vedrà accelerata la propria pratica di richiesta d’asilo e, in caso di diniego, sarà immediatamente allontanato dall’Italia, nonostante l’assenza di una condanna definitiva e la compressione del diritto di difesa.

La seconda ha a che fare con la cittadinanza, istituto indivisibile in categorie differenziate pena la sua stessa negazione. Cittadini si diventa, con la Rivoluzione francese, nel momento in cui i molteplici status cetuali che definivano peculiarmente il rapporto dei singoli con l’autorità si fondono in una condizione universale, definibile in termini di diritti e doveri uguali per tutti.

Se l’autorità può di più o di meno nei confronti di qualcuno, allora a rilevare è il privilegio di chi ha meno doveri o più diritti, vale a dire, lo status che differenzia il privilegiato rispetto agli altri. Esattamente com’era prima del 1789.

Il decreto Salvini crea una differenziazione di questo genere, prevedendo che coloro che hanno acquisito la cittadinanza italiana dopo la nascita possano vedersela revocata qualora commettano determinati reati. Analoga regola non vale per chi è cittadino dalla nascita, sicché, quando si tratterà di punire il responsabile di talune condotte criminali, a venire in luce non sarà ciò che egli ha fatto, ma chi è: se un membro della categoria privilegiata o no.

La stessa azione sarà, cioè, punita diversamente a seconda di chi ne è l’autore, in clamorosa violazione del principio di uguaglianza formale. Chi replica che l’ordinamento già prevede ipotesi di revoca della cittadinanza non coglie nel segno, perché quelle ipotesi valgono tanto per i cittadini dalla nascita quanto per quelli che lo divengono nel tempo.

Sono ipotesi che non creano una categoria di cittadini di secondo rango, come invece fa il decreto del governo.

Naturalmente, su entrambi i profili potrà in futuro intervenire la Corte costituzionale, ma che a fronte di tali forzature la Presidenza della Repubblica si sia limitata a un richiamo formale della Costituzione – quando ancora ieri ha dimostrato di saper assumere posizioni critiche ben più incisive – suscita perplessità.