Quando c’è di mezzo il M5S bisogna sempre tener conto dello scarto tra propaganda e realtà. Regola che vale anche per il cosiddetto «decreto dignità» appena approvato dal governo. A sentire Di Maio, sembrerebbe che l’esecutivo abbia varato un nuovo «statuto dei lavoratori», che metterà fine allo sfruttamento del lavoro precario e cambierà il paradigma che ha ispirato le (contro)riforme del mercato del lavoro degli ultimi vent’anni.

Le norme contenute nel provvedimento, concepite al di fuori di una rivisitazione organica della legislazione in materia, lasciano irrisolte le principali questioni sul tappeto, a cominciare dalle «tutele crescenti» fino ai licenziamenti «senza giusta causa», rischiando di arrecare danni proprio a chi dovrebbe beneficiarne. Non si mette in discussione il principio, sancito con il Jobs Act, in base al quale il godimento pieno dei diritti da parte dei lavoratori debba essere correlato all’anzianità di servizio, che, nella maggior parte dei casi, coincide con l’anzianità anagrafica (più sei giovane, meno diritti hai).

Non ritorna il diritto per il lavoratore di ricorrere al giudice per la «reintegra» nel caso di licenziamento «senza giusta causa» (vecchio art.18), quindi resta il regime dell’indennizzo per i licenziamenti arbitrari, benché potenziato (si passa da 4 a 6 mensilità per l’indennità minima e da 24 a 36 per quella massima), fatti salvi i casi «eccezionali» che, comunque, prevedono l’inversione dell’onere della prova a carico del lavoratore. Rimane la possibilità per le imprese di licenziare come e quando vorranno (tutti i licenziamenti finiscono per avere una motivazione «economica»), cavandosela con il pagamento di qualche mensilità in più a titolo di risarcimento (per le grandi imprese una quisquilia). Che dire, nondimeno, della reintroduzione delle «causali» e della durata massima dei contratti a termine (da 36 si passa a 24 mesi)? Essendo le prime «facoltative» per i primi 12 mesi (in pratica si torna alla riforma Fornero del 2012), anziché rinnovare lo stesso contratto, un imprenditore potrà sempre stipularne un altro, con un altro lavoratore, aggirando sia l’obbligo della «causale» che il limite dei 24 mesi (e delle penali contributive).

Fuori dal decreto, rimangono il lavoro subordinato a tempo indeterminato «somministrato» da agenzie specializzate (Staff Leasing) e i buoni lavoro (voucher). Quest’ultimi, dopo essere stati cancellati da una norma nel 2017 (per evitare il referendum), sono rientrati dalla finestra, lo stesso anno, sotto mentite spoglie. La differenza, rispetto ai ticket che si potevano acquistare anche in tabaccheria, sta solo nel fatto che la «prestazione occasionale» oggi è gestita esclusivamente attraverso una piattaforma dell’Inps ed a giovarsene sono solo le imprese con non più di 5 dipendenti. Il «decreto dignità» non cancella questi «contratti» e Di Maio annuncia che di voucher dovrà occuparsene il parlamento. Non per togliere di mezzo quelli reintrodotti da Gentiloni, ma, eventualmente, per tornare alla disciplina ex ante, ovvero per rendere il regime più permissivo.

Un compromesso con le esigenze della Lega, che già parla, per bocca del suo leader, di «modifiche» al provvedimento per renderlo più «efficiente e produttivo».
Nonostante questo, le associazioni datoriali sono sul piede di guerra. Criticano le misure relative al mercato del lavoro e il giro di vite sulle delocalizzazioni, ma, sicuramente, la loro delusione maggiore è per l’annacquamento degli interventi in materia fiscale: per il «redditometro» lo «spesometro», lo split payment saranno tagliati fuori solo i professionisti.
Non a caso è stato già annunciato un nuovo intervento per «ridurre il costo del lavoro». Essere populisti significa averne per tutti, o no? In sottofondo, risuonano le note del ministro Tria, che, di fronte alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, ha ribadito che gli obiettivi del governo saranno perseguiti continuando a ridurre deficit e debito, «senza un peggioramento del saldo strutturale». E Di Maio è avvisato, anche per il «reddito di cittadinanza».