Nel pacchetto di riforme allo studio della maggioranza per superare i decreti sicurezza varati dal precedente governo sembrerebbe esserci anche la riduzione (e non l’abolizione) delle sanzioni attualmente previste per le Ong che violano i divieti ministeriali di ingresso nelle acque italiane. Se la notizia fosse confermata si tratterebbe di una modifica molto insidiosa, poiché dietro alla facciata di un passo avanti sulle politiche migratorie finirebbe per confermare, nelle sue linee di fondo, la stessa logica che aveva animato la stagione salviniana dei “porti chiusi”.

Anziché mettere radicalmente in discussione l’impianto del decreto sicurezza-bis, la riforma in cantiere sembrerebbe infatti limitarsi ad “addolcirne” le conseguenze sanzionatorie, riducendo l’importo della sanzione pecuniaria (che dall’attuale massimo di un milione di euro scenderebbe a 50.000 euro) e prevedendo che l’imbarcazione possa essere confiscata soltanto in caso di reiterazione della condotta.

Un intervento riformatore di questo tipo, tuttavia, perderebbe clamorosamente di vista l’obiettivo di correggere le attuali macroscopiche storture della legislazione italiana. Il diritto internazionale del mare prevede infatti che il comandante della nave svolga un ruolo attivo nell’individuazione del porto sicuro verso il quale fare rotta dopo avere tratto in salvo le persone in pericolo (Linee Guida dell’International Maritime Organisation sul trattamento delle persone soccorse in mare). Il che è perfettamente ragionevole se si pensa che il comandante è l’unico soggetto in grado di valutare da vicino tutte le circostanze concrete, incluse le condizioni delle persone a bordo e quelle metereologiche. Nel momento in cui, avvenuto il soccorso, gli Stati costieri non indichino alcun porto sicuro (o perché tacciono, o perché indicano la Libia, che tutto può dirsi tranne che sicura), è ragionevole oltre che giuridicamente ineccepibile che la scelta finale su dove attraccare sia compiuta dal comandante. Rispetto a tale situazione, la possibilità che un ministro dell’Interno possa emanare un divieto di ingresso appare preoccupante per due principali ragioni. Anzitutto perché sovverte la logica del soggetto più indicato a individuare il porto sicuro: non chi osserva la scena dalle stanze del Viminale, coi piedi all’asciutto, bensì il comandante della nave che ha di fronte la situazione concreta. In secondo luogo, perché rischia di produrre un effetto deterrente nei confronti dei comandanti delle navi commerciali, i quali, intravedendo il rischio di rimanere bloccati in una specie di limbo giuridico con decine di migranti a bordo, potrebbero essere per così dire scoraggiati dall’intraprendere iniziative di salvataggio (già oggi non mancano, purtroppo, le drammatiche cronache dei barconi abbandonati alla deriva senza che nessuno intervenga).

Bisogna dare atto al governo in carica di avere finora lasciato inapplicata la normativa sui “porti chiusi” voluta da Salvini, evitando cioè di emanare i relativi divieti di ingresso e intavolando proficue trattative, nel quadro degli accordi di Malta, per la ricollocazione dei naufraghi tra i Paesi disponibili ad accoglierli. Se però l’intento riformatore fosse davvero quello di superare la logica dei porti chiusi, perché mai lasciare in vita delle norme che ne rendono in qualunque momento possibile il ritorno? La mera riduzione delle sanzioni, anziché la loro cancellazione, suona anzi come un monito: attenzione, ora che la legge è stata riportata nei limiti della proporzionalità, non si esiterà ad applicarla laddove risultasse necessario. Tale situazione potrebbe presentarsi, ad esempio, se durante il protrarsi dei negoziati di ricollocamento un comandante si rendesse conto dell’insostenibilità della situazione sanitaria a bordo, e decidesse in autonomia di attraccare in un porto italiano.

Forse, però, l’aspetto davvero inquietante dell’intera vicenda è a monte delle questioni giuridiche di carattere più tecnico, ed è rappresentato dal fatto stesso che il tema delle sanzioni per le Ong sia ancora all’ordine del giorno. Come se fosse una cosa normale il fatto di discutere quanto sanzionare coloro che trasportano dei naufraghi sulla terraferma. La peggiore eredità del governo giallo-verde potrebbero allora non essere le leggi che ha introdotto, bensì l’avere spostato sensibilmente avanti la soglia psicologica e morale di ciò che siamo disposti ad accettare in nome della protezione delle frontiere. Il passaggio è cruciale, perché quando si inizia a considerare possibile, o anche solo degno di discussione, ciò che fino a ieri sarebbe stato considerato anormale, in quanto disumano, allora si sta preparando un terreno sul quale potrebbe germogliare quel “male” sulla cui “banalità” Hannah Arendt ha lucidamente messo in guardia la società contemporanea e tutti i suoi attori.

*docente di diritto penale dell’Unione europea, Università Statale di Milano