Il confine è un concetto profondamento eterogeneo e polisemico, porta con sé molteplici strati di significato, a partire dalla questione delle migrazioni. Nell’immaginario collettivo esso è sinonimo di una linea tracciata su una mappa, ovvero la sua manifestazione geopolitica, immagine che sembra lasciare da parte – ad esempio, il suo senso morale, linguistico o cognitivo.

A partire dalla Modernità, quando dal diciassettesimo secolo in Europa si inizia ad affermare lo stato territoriale, cambia il significato di territorio e con esso il legame che ha con quello di confine: il territorio diviene confinato. Questo binomio, insieme alla moderna cartografia, riporta a quella linea tracciata su una mappa appena menzionata. Il confine come linea rimane connesso strettamente alla terra, un confine terrestre, mentre in mare cominciano a essere tracciate demarcazioni altre, come canali e linee di scorrimento – a tracciarle sono le mappe dell’espansione coloniale e imperiale europea. Con il movimento della decolonizzazione il confine lineare si globalizza, mentre il mare continua a resistere alla sua imposizione.

Il mare territoriale, le acque territoriali, la zona economica esclusiva, la zona SAR, sono l’esempio delle diverse demarcazioni che si sovrappongono nei mari, insieme alla frontiera marittima: in diverse parti del mondo, quest’ultima è luogo di contestazione e di esercizio di necropolitica. Il problema che emerge dagli spazi di frontiere liquide pone anche altre questioni, l’estrazione delle risorse ad esempio come accade nel Mar Egeo.

Partendo dalla concezione di confine come uno spazio di produzione e riproduzione della matrice coloniale del potere, è possibile rintracciare pratiche di decolonizzazione del confine stesso, inteso come astrazione e luogo invisibile. Consideriamo, infatti, i movimenti migratori come pratiche e movimenti sociali. Questo non significa affermare che le migrazioni possano essere equiparate al movimento ecologista o a quello femminista. Il concetto di movimento sociale assume qui un senso che sottolinea l’importanza delle motivazioni soggettive, dei desideri, dei bisogni delle persone in movimento, di coloro che quotidianamente devono sottostare al regime di controllo del confine.

In questa finestra, contestare dispositivi e retoriche di vittimizzazione dei migranti non significa certo ignorare la violenza dei sistemi di potere di cui i migranti e le migranti sono spesso bersaglio e vittime. Diventa però necessario mettere in campo un altro sguardo, uno sguardo che cerca di leggere conflitti come quelli del Mediterraneo non dal punto di vista del dispositivo del dominio ma da quello delle donne e degli uomini in movimento, della loro capacità di auto-organizzazione anche in condizioni inspiegabili. Diventa necessario ancora disattivare dispositivi di governo di controllo del confine che hanno chiaramente una matrice coloniale e che si pongono in continuità con la lunga storia del colonialismo. Donne e uomini che un secolo fa sarebbero stati confinati nelle loro terre come sudditi coloniali, oggi si muovono. Come ricorda Said: c’è già una critica di quel confinamento che è carattere fondamentale dei regimi di dominio coloniale.

Si è cercato di costruire ponti tra mare e terra andando oltre l’idea che l’intervento di salvataggio in mare debba concludersi nel momento in cui è stata risolta un’emergenza. Negli ultimi anni abbiamo potuto assistere ad una moltiplicazione degli attori che intervengono in mare, nonostante gli ostacoli da parte delle autorità. Prendiamo ad esempio l’impatto all’interno del dibattito della flotta civile da parte di Black Lives Matter. Gli attori umanitari classici hanno sempre sostenuto che non si dovesse parlare di migranti in relazione alla morte, bensì di “persone”, di “esseri umani”. Utilizzare il concetto astratto dei diritti umani è sicuramente importante, ma chi muore nel Mediterraneo lo fa in quanto soggetto incarnato e costruito da dispositivi di razzializzazione, in quanto soggetto povero o con un genere specifico. Black Lives Matter ha rafforzato questa posizione e permette a uno spettro ampio di attori di nominare la lunga storia del colonialismo che segna i corpi di coloro che attraversano il Mediterraneo e sfidano la frontiera marittima.

È importante sottolineare, anche per comprendere le evoluzioni politiche italiane nella loro specificità, che quello che abbiamo chiamato regime europeo di controllo dei confini e delle migrazioni, che si era andato formando tra metà degli anni ‘90 e il primo decennio del nuovo secolo, è entrato in crisi nel 2015, durante “la lunga estate delle migrazioni”, con una sfida a riorganizzare in senso democratico la gestione del confine. Oggi assistiamo al processo di ri-nazionalizzazione del controllo delle frontiere che porta alla paralisi del regime europeo: assistiamo al tentativo di rilanciare il regime. Espulsioni, deportazioni, selezione dei pochi autentici rifugiati nella massa dei migranti economici e il ruolo fondamentale giocato dalle isole. Il regime europeo di controllo del confine e delle migrazioni non ha mai avuto come sua unica ragione d’essere l’esclusione dei migranti e dei rifugiati ma ha sempre puntato a combinare espulsione e inclusione, in questo senso parliamo di “inclusione differenziale dei migranti e lavoro migrante nello spazio europeo” (cit. Sandro Mezzadra e Brett Nielson). Il concetto di capitale umano tesse le fila di questo tentativo di rilancio.

Infine, la politica di esternalizzazione delle frontiere ha inoltre condotto una progressiva ondata verso ovest. Gli accordi con la Libia, gli accordi tra Spagna e Marocco, Frontex, il rafforzamento delle difese di confine, sono alcuni dei fattori per cui le partenze dal lato Atlantico possono dirsi aumentate. È vero che il Mediterraneo è stato definito un mare-cimitero, in cui le morti restano invisibili, ma il tentativo di traslazione di flussi verso luoghi più lontani in cui si perde il controllo, gli spazi sono meno visibili e più pericolosi, come definisce questo oceano?

Quanto accade lungo le rotte altre non fa che dimostrare la necessità di raccogliere questa sfida per capirne la sua radicalizzazione e la moltiplicazione dei significati che porta al suo interno.