Alcune espressioni nascono tardi e occasionalmente. Il termine «Art Déco» nacque al modo delle guerre per Tucidide quando, cioè, tutto il mondo vi era già immerso, soltanto non lo diceva ad alta voce. Nel 1925, infatti, anno della parigina Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes il nuovo teatro sugli Champs Elysées era già stato inaugurato, la tomba di Tutankhamon scoperta e Isadora Duncan esprimeva da qualche tempo il mistero della danza attraverso lenti e ieratici movimenti del corpo. Il Déco nacque da tutto ciò e da alcuni stilemi delle avanguardie allorché questi, come decantati, avevano perso la loro originaria irruenza espressiva: la semplificazione e l’energia delle linee derivava dal futurismo, la plasticità delle pose era di stampo secessionista mentre la tavolozza, che aveva la selvaggia dei fauves, si disponeva sovente in schemi desunti dal cubismo più decorativo. L’esito? Un sincretismo molto civilizzato, molto snob.
La mostra Art Déco Gli anni ruggenti in Italia (1919-1930), a cura di Valerio Terraroli, ospitata fino al 18 giugno nel complesso dei Musei di San Domenico a Forlì, espone gli sviluppi di quest’arte in Italia in una raccolta di artisti eccellenti fra i quali Vittorio Zecchin, Gio Ponti, Adolfo Wildt, Galileo Chini, Alfredo Ravasco, Umberto Brunelleschi, Duilio Cambellotti e Francesco Nonni. Fra i molti suoi meriti v’è l’aver trattato il Déco per quel che effettivamente è: non uno stile ma un gusto, ovvero qualcosa di più e di meno, dove le distinzioni consuete fra le arti maggiori e le minori si sciolgono. L’Art Déco era, infatti, nato come un’immagine e un gusto particolare della vita: invase i caffè, i cinema, i teatri, le saune, venne esportato nelle carrozze dei treni e giunse in America, con tutti gli agi, sulle comode poltrone dei transatlantici. Lo si ritrova, certo, nelle singole opere, come ricorrenza di tratti, ma non mai così bene come in una stanza del Vittoriale o nell’interno di una carrozza salone o della sala di un ristorante, dov’è nella sua pienezza, nel suo vigore, nella sua sintesi.
Smalti lucenti, impasti squillanti
I curatori hanno, con grande finezza, esposto il materiale più diverso, costituito da stoffe, abiti, gioielli, manifesti, arredi, statue, vasi e dipinti, sicché in questa mostra, seppure il criterio di disposizione delle opere oscilli alle volte fra parametri storici e tematici (alcune sala sono dedicate alle varie Esposizioni di Monza, altre al motivo dell’esotismo o dell’animalesco), l’effetto ultimo di far rivivere la sensibilità degli anni venti in Italia è pienamente compiuto.
E di tale sensibilità può dirsi questo: che predilesse gli smalti lucenti, gli impasti squillanti, le forme lievi e polite come valve marine. Così se in un appartamento liberty, come spiritosamente diceva Praz, l’impressione è quella di essere in una crisalide, un salotto déco può equivocarsi facilmente, secondo l’arguzia di Jullian, con una sala da bagno. D’altro canto, il Déco, volendo far assomigliare la natura a un sillogismo di marmi e pietre preziose, sembrò far il contrario del Liberty al quale era piaciuto che fosse, viceversa, la materia ad assumere le flessuose movenze di un giunco. Sotto un altro aspetto i due gusti, tuttavia, si somigliano come prodotti di stilizzazioni radicali, seppur di due tendenze diverse: naturista l’una, astratta e geometrica l’altra. Erté (del quale è presente alla mostra una deliziosa tempera su carta: una testa di manichino ebano e oro dai riccioli rapiti a qualche fregio assiro) fu il Beardsley del Déco.
L’allestimento, almeno quello del primo piano, non sarebbe potuto desiderarsi migliore giacché isola gli oggetti, esaltandone in malia delicata di luce l’estrema purezza dei materiali e dei disegni. E passeggiando da un luogo all’altro della sala ci si accorge di come quest’arte avesse realizzato quel che la scuola di Francoforte temeva: la forma pura e interamente risolta, svuotata di ogni contenuto di «realtà», paga solo di sé e della sua aristocratica intangibilità. I vasi di Zecchin, diafani impasti d’aria, paiono fatti per non contenere nulla di più denso che geni d’Oriente e così i cristalli di Guido Balsamo Stella (ne sono esposti quattro), sui quali l’artista ha inciso lievi figure di sirene perché gli dei ridessero mirandone i mobili giochi di luce. Anche le immagini dipinte da Gio Ponti e plasmate da Libero Andreotti su ciste e coppe delle fabbriche Richard-Ginori (che valsero al suo creatore la medaglia d’oro all’Esposizione del ’25), fantasie di rovine classiche e figure di stilizzato ricordo ellenico, vivono di una medesima atmosfera di rarefatto distacco. Se ne contano di splendide come La conversazione classica, cista in porcellana, smalti e oro a punta d’agata dedicata ai coniugi Ojetti o le urne, similmente di porcellana, smalto e oro, Triumphus Amoris, Serliana, La passeggiata archeologica, anch’esse conversazioni, settecentesche quasi, coi classici. Sono capricci che impiegano le vestigia antiche al modo col quale quei medesimi antichi avevano adoperato satiri e chimere per le loro grottesche; Ponti trovò da sé il nome per definirle e le disse «pontesche». In un mondo nel quale l’intera natura sembra toccata dal sangue di Medusa, orsi si abbeverano in stagni di agata, elefanti di giada si sfamano di frutti corallini e uccelli depongono uova che sono perle: domina questa sala, «Wunderkammer déco» dedicata ai gioielli di Alfredo Ravasco, la statua di Ebe scolpita da Canova, che dei Musei di San Domenico è ospite permanente. Spiega il pannello: «l’Ebe sottolinea ancora una volta quanto il classicismo, nelle declinazioni rinascimentali, manieriste, barocche e neoclassiche, sia la fonte di Ravasco, e con lui di molto Déco italiano, ma innesta su una ricerca protesa verso l’invenzione lussuosa, inaspettata, barbarica».
La commedia sofisticata
Le affinità fra alcuni dei ritratti esposti, quelli di Rosa Rodrigo, ad esempio, e di Wally Toscanini (rispettivamente di Anselmo Bucci e di Alberto Martini), e l’iconografia cinematografica di quegli anni mostrano come il divismo cinematografico fosse l’esito naturale di questo classicismo prezioso ed esclusivo. Non si può obiettare perciò la scelta dei curatori di mettere a sigillo della mostra quattro ritratti di Tamara de Lempicka, quali sopravvivenza del Déco «come emblema snobistico del glamour» assieme «agli interni e alle ambientazioni della commedia sofisticata hollywoodiana». Il sogno fu breve. Questi uomini erano certo votati all’icarismo ma anche a bruciarsi, come Icaro, le ali. I treni, le automobili (alla mostra è presente la celebre Isotta Fraschini di D’Annunzio), gli areoplani ai quali avevano confidato il desiderio d’eguagliarsi agli dei li avrebbero presto traditi.
Alcune avvisaglie c’erano già state: l’auto aveva ucciso Isadora Duncan, dopo averle portato via i figli, e il velivolo aveva accecato il «Vate» che nel buio della convalescenza avrebbe scritto il Notturno, giacimento anch’esso di motivi «stilizzati». Negli anni trenta le ferrovie non trasportavano più villeggianti ma soldati e armamenti e così le navi. Dagli aerei cadevano bombe e l’epoca dei cavalieri dei cieli era finita. Ebe si era allontanata dalla mensa dei mortali. Nelle sale del Complesso di San Domenico questo mondo risplende come prima del suo crepuscolo; chiusa la mostra, restituite le preziose opere, si dissolverà un’altra volta: chi può vada, dunque, a Forlì ad ammirare i fantasmi di un’Europa felice.