Prima, a fine dicembre, è toccato ai poliziotti di Istanbul: duecento, o più, declassamenti. Adesso la purga s’è spostata nella capitale Ankara. Ieri la stampa turca ha riportato la notizia di trecentocinquanta rimozioni nelle unità dell’intelligence, dei reati fiscali, della lotta alla criminalità organizzata e al cybercrime. Quelle che hanno indagato sulla «tangentopoli turca», che ha messo sulla graticola tre ministri del governo (economia, ambiente, interni). I loro rampolli erano stati arrestati nell’ambito di un presunto – e gigantesco – giro di mazzette, favoritismi, clientele. Le indagini hanno lambito persino Bilal, uno dei figli del primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Ecco il punto. La «purga» è una rappresaglia di Erdogan verso chi, indagando, ha messo in seria difficoltà l’esecutivo e la sua forza motrice, il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), sfregiandone, alla vigilia delle amministrative di marzo e delle presidenziali di agosto, l’immagine austera e pulita con cui s’è sempre presentato all’opinione pubblica.

Ma più che un affondo alla polizia quello di Erdogan, che nei giorni scorsi ha varato un maxi rimpasto nominando dieci nuovi ministri, è un attacco durissimo verso Hizmet, potente movimento fondato da Fetullah Gulen, il predicatore islamico con cui Erdogan ha condiviso una lunga parte di strada, riuscendo a dare la scalata al potere, a vincere tre elezioni di fila e a ridurre l’eccessivo peso sulla vita pubblica della casta militare, guardiana dell’ideologia laicista di Mustafa Kemal Ataturk e nemica giurata dell’Akp. Ora, per tutta una serie di motivi, tra cui l’approccio molto muscolare del primo ministro al tempo della rivolta di Gezi Park, i rapporti tra i due si sarebbero lacerati. E la tesi sarebbe che Gulen, grazie all’influenza che Hizmet avrebbe nella polizia e nella magistratura, avrebbe dato il via libera all’inchiesta sulla tangentopoli cercando in questo modo di limitare gli eccessi di Erdogan. Il capo di Hizmet, così s’è scritto, teme che il piglio decisionista e la fame di potere del premier (pare che voglia candidarsi alla presidenza), così come l’enfasi riposta sul cosiddetto neo-ottomanesimo a scapito del tradizionale approccio atlantista, mettano a repentaglio il modello turco, impasto equilibrato di Islam e democrazia, al cui successo Gulen ha contribuito sia in termini teorici che pratici, mobilitando la sua gente e portandola a votare in massa per l’Akp.

All’offensiva verso la polizia potrebbe affiancarsene una contro i magistrati. Per legge il governo non può rimuoverli ma, su impulso del nuovo ministro della giustizia Bekir Bozdag si starebbero aprendo dei file sui magistrati, tra questi Muammer Akkas, che hanno indagato sul presunto giro di tangenti. A suo tempo Akkas ha coordinato le indagini di Ergenekon, il processo, concluso qualche mese fa, che ha assestato un duro colpo alla casta militare. Si sussurra che sia stato istruito con l’iniziale consenso di Gulen, con l’obiettivo di ridurre lo spazio di manovra dei militari. Nei giorni scorsi l’esercito, ritenendo che siano fioccate condanne facili verso i propri membri, ha chiesto di riaprire il fascicolo. Erdogan intenderebbe appoggiare la cosa. Per screditare Gulen e la magistratura a lui vicina, scrive il New York Times. Salvo colpi di scena questa crisi, a differenza di Gezi Park, si combatte non sulla piazza, ma con le carte. Gulen, intanto, ha scritto nel weekend una lettera al presidente della repubblica Abdullah Gul, storico luogotenente di Erdogan e rispettatissimo esponente dell’Akp, proponendo la fine delle ostilità. Ma può anche darsi che, rivolgendosi a Gul, voglia cercare nel partito di governo, che ha patito qualche recente defezione, un baluardo contro il primo ministro.