La guerra tra Isis e Stati Uniti vive un’altra barbarie: ieri sera il secondo ostaggio statunitense, il reporter Steven Sotloff, sarebbe stato ucciso dai miliziani di al-Baghdadi. Decapitato, come prima il giornalista James Foley. Un video mostrerebbe un miliziano vestito di nero uccidere con un coltello Sotloff in un luogo desertico, probabilmente in Iraq. Per ora non ci sono conferme dell’esistenza del video, nuovo messaggio-minaccia a Washington, impegnata negli ultimi giorni in raid per la liberazione della città sciita turkmena di Amerli, dove lunedì è andata in scena la guerra civile irachena, la stessa che infiamma Baghdad di esplosioni e morte.

È andata in scena dopo la fine di un assedio jihadista lungo due mesi: quasi a rivendicare quella vittoria – la liberazione di 15mila turkmeni – è stato il redivivo ex premier Nouri al-Maliki, uno dei principali responsabili dell’attuale caos, passato in una manciata di mesi da amico fidato di Washington a capro espiatorio dei mali del paese.

Lunedì, mentre la gente celebrava la scomparsa delle bandiere nere dai tetti, Maliki (ancora in carica fino alla nomina del nuovo governo, prevista per l’11 settembre) arrivava a sorpresa attirando l’attenzione di una comunità stremata, da settimane impegnata a difendere con le armi la vita. Il giorno precedente una strana alleanza aveva spezzato la resistenza dell’Isis: peshmerga kurdi, esercito iracheno, raid statunitensi e milizie sciite hanno aperto la strada per Amerli ai soldati governativi che hanno portato con sé camioni di cibo e tonnellate di acqua potabile. Tra le milizie presenti, anche gruppi armati addestrati dall’Iran e gestiti dai pasdran e il leader religioso Moqdata al Sadr, o meglio, la sua personale milizia, le Brigate della Pace, nate dall’Esercito al-Madhi attivo negli anni dell’occupazione statunitense.

Ad al Sadr e a Teheran lo show di Maliki – comparso al momento dei festeggiamenti, nel chiaro tentativo di rivendicare ufficiosamente quella vittoria – non deve essere piaciuto, nonostante in passato l’Iran abbia usato il premier per radicare la propria influenza su Baghdad. Entrambi lavorano da mesi per vederlo estromettere da un potere esercitato per otto anni. Nel video mandato in onda dalla tv di Stato, si vede Maliki in piedi su una scrivania con alle spalle un poster con il volto dell’Ayatollah al-Sistani (che nei due mesi appena passati ha fatto pressioni dirette per l’allontanamento di Maliki) che distribuisce premi e promozioni ai combattenti: «Rendo onore alla vostra resistenza e pazienza contro quelle bestie – ha detto alla folla in festa – Tutto l’Iraq sarà una tomba per quegli infedeli».

Oggi Amerli è il nuovo simbolo della resistenza sciita, la Stalingrado irachena, la chiamano i residenti. Un buon punto di partenza per un Maliki messo all’angolo. E mentre l’ex premier tenta la via popolare, forze kurde e milizie armate sciite – tra cui le Brigate di al Sadr e le Asaib Ahel-al-Haq, riferimento iraniano – continuano nella controffensiva contro l’Isis: è tornata in mano governativa anche la città di Suleiman Bek, dove ieri i volontari sciiti hanno avviato un’operazione di pulizia da mine, ordigni e jihadisti ancora presenti. La cittadina era stata presa dall’Isis dopo un’occupazione lunga un anno condotta dai baathisti dell’Ordine Naqshbandi, gruppo guidato dal vice di Saddam Hussein, Izzat Ibrahim al-Douri. La milizia di fedelissimi dell’ex rais, alleatosi con l’Isis sperando di usarlo per cacciare da Baghdad il governo sciita, aveva consegnato la città ai miliziani qaedisti nelle scorse settimane.

Ripresa anche la strada di collegamento tra Baghdad e Kirkuk, a nord di Suleiman Bek, oggi in mano dei peshmerga dopo l’occupazione ufficiosa da parte della regione del Kurdistan, mentre fonti a Mosul hanno dichiarato alla stampa irachena che i jihadisti avrebbero abbandonato i loro quartier generali in città per il timore di bombardamenti, dopo il lancio di volantini dai jet Usa che annunciano ai residenti una campagna aerea contro le postazioni dell’Isis, campagna che la morte di Sotloff potrebbe incrementare.

Ma la strana alleanza per la liberazione dei villaggi della provincia di Salah-a-din difficilmente potrebbe reggere, vista la chiara avversione dell’amministrazione Obama a vedere i propri interessi convergere con quelli iraniani e (indirettamente) siriani. Le mani in pasta potrebbe rinfilarle anche l’Arabia saudita, principale accusato di aver finanziato gruppi islamisti in Siria e Iraq: il principe Salman bin Abdul Aziz è vicino alla firma di un contratto da 2,3 miliardi di euro con il governo francese. Armi che ufficialmente andranno all’esercito libanese impegnato al confine con la Siria ad evitare offensive dell’Isil.