Dopo 25 anni i boss mafiosi avevano indicato il nuovo padrino. A capo della Cupola, regno incontrastato dei Corleonesi dopo la mattanza degli anni Ottanta, sarebbe stato «nominato» Settimo Mineo, vecchio capomafia di 80 anni, imputato e condannato nel maxi processo voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e tornato in campo dopo avere scontato le condanne in carcere.

Il boss sarebbe stato «incoronato» in un summit, il 29 maggio scorso, convocato per rimettere in piedi l’organizzazione mafiosa, destrutturata dalle tante operazioni che dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio portarono in carcere il gotha di Cosa nostra. Morti Riina e Provenzano, capi indiscussi della Cupola, le «famiglie», almeno alcune, sarebbero riuscite a riunirsi attorno allo stesso tavolo per ristabilire ruoli e regole con l’obiettivo di ricostituire la commissione verticistica. Ne sono convinti i carabinieri che, coordinati, dalla Procura di Palermo, hanno messo a segno l’operazione «Cupola 2.0», col fermo di 46 persone. Ma, soprattutto, l’indagine ha svelato il nome di quello che sarebbe stato il nuovo capo della mafia.

ondizionale d’obbligo, secondo esperti del fenomeno: Settimo Mineo infatti sarebbe stato designato solo da alcune «famiglie» mafiose. Al summit non avrebbero partecipato tutti i capimafia dei mandamenti. Insomma: Mineo sarebbe stato al vertice di un pezzo di Cosa nostra ma non ancora il capo indiscusso. Certamente, l’operazione antimafia dell’Arma svela una mafia che torna al passato e che afferma le antiche regole come quella della affiliazione rituale attraverso la «punciuta» e del divieto ferreo per gli uomini d’onore di avere relazioni extraconiugali.

La svolta dell’inchiesta arriva il 29 maggio. A mezzogiorno quattro boss palermitani, tutti sotto indagine, fanno perdere le proprie tracce per qualche ora. Spariscono. I loro cellulari, stranamente, non danno indicazioni sui loro spostamenti agli investigatori che li tengono sotto controllo. Ma uno di loro, Francesco Colletti, capomafia di Villabate, non volendo, fornirà agli inquirenti la chiave del mistero. E in auto e al suo autista, anche lui uomo d’onore, racconta minuto per minuto, non sapendo di essere intercettato, la cronaca del summit appena concluso tra i più influenti padrini palermitani. Riuniti in un luogo rimasto misterioso, i capimafia hanno riportato in vita la commissione provinciale di Cosa nostra e designato il nuovo capo dei capi: Settimo Mineo, professione ufficiale gioielliere, due fratelli uccisi durante la guerra di mafia. Le parole di Colletti per i pm della Dda di Palermo sono la conferma di un sospetto: i boss rivogliono la Cupola, tenuta in sonno durante la detenzione di Riina. Perché con la morte del padrino c’è bisogno delle antiche certezze e di un organismo che decida «le cose gravi».

Mineo ora è tornato in carcere per associazione mafiosa. Con lui altre 45 persone: capimafia, estortori, gregari dei mandamenti di Pagliarelli, Porta Nuova, Villabate e Misilmeri. «Si è fatta comunque una bella cosa… per me è una bella cosa questa… molto seria… molto… con bella gente.. bella! grande! gente di paese… gente vecchi gente di ovunque», commentava entusiasta Colletti parlando del summit. Nel corso di quell’incontro erano state dettate le regole: dal rispetto delle zone di influenza di ciascun mandamento, alla rappresentanza esclusiva del territorio dei reggenti. «Nessuno è autorizzato a poter parlare dentro la casa degli altri», diceva Colletti. Ordine e rispetto delle «norme», dunque. Pena l’esclusione dall’organizzazione.

«Cosa nostra non può rinunciare alle tradizioni», spiega il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. Mentre l’aggiunto Salvo De Luca parla di ritorno a una «democrazia» interna nell’organizzazione e a un organismo collegiale dopo anni di dittatura. Per il resto l’inchiesta racconta una mafia più interessata che mai agli affari: la droga, antico business per anni lasciato alla ’ndrangheta, le scommesse online, nuova frontiera del guadagno illecito, le estorsioni. I carabinieri ne hanno accertate 28. Bersagli commercianti e imprenditori, soprattutto edili. «Nove vittime – dice Antonio Di Stasio, comandante provinciale dei carabinieri – si sono presentate spontaneamente a denunciare».