Almeno due generazioni di lettori e studiosi hanno accostato il Decameron secondo la prospettiva tracciata da uno studioso italiano, Vittore Branca (1913-2004), cui tra l’altro si deve nel ’62 la identificazione dell’autografo berlinese segnato «Hamilton 90» e nel ’98 di un idiografo relativo una a stesura ancora intermedia, se non proprio giovanile, del capolavoro: lo stesso Branca già nel ’56 aveva pubblicato un volume molte volte ristampato e accresciuto, Boccaccio medievale, titolo paradossale per quanti vagheggiavano un Boccaccio antesignano dell’Umanesimo, eppure divenuto presto di senso comune. Si trattava di una lettura fortemente segnata dalla formazione idealista, e anzi spiritualista, dello studioso, il quale deduceva dal Decameron una struttura verticale, ascendente e sottotraccia simile a quella della Commedia dantesca valutando tutto il differenziale che intercorre tra l’esordio in cui va in scena lo spergiuro e blasfemo ser Ciappelletto, un irresistibile Giuda, e l’eroina che congeda viceversa i lettori nell’ultima giornata, Griselda, severo esempio, nel patimento e nella umiliazione, di una vera e propria Imitatio Mariae.
Quello di Vittore Branca era dunque un Boccaccio ufficiosamente risospinto fra le ultime tenebre della Scolastica o comunque retroverso dall’autunno del Medioevo e così il Decameron somigliava a una Commedia molto meno umana di quanto non fosse stata prima immaginabile: una conferma sorprendente alla tesi spiritualista di Branca sarebbe arrivata, nei pieni anni settanta, da alcuni strutturalisti affascinati dalle semiotiche medievali e fra costoro, oggi duole dirlo, il firmatario di una molto discutibile Grammaire du Décameron (’69) cioè Tzvetan Todorov.
Quasi inosservato il contributo in controtendenza, nella miscellanea Il testo moltiplicato che esce nel 1983 da Pratiche di Parma, a cura di uno studioso, Mario Lavagetto, il grande interprete di Saba e Svevo, di Montaigne e di Proust, che oggi torna a Boccaccio con un’opera di straordinaria limpidezza: Oltre le usate leggi Una lettura del “Decameron” (Einaudi «Saggi», pp. 272, € 28,00). Lavagetto innanzitutto , e secondo etimologia, legge il dettato originale e coglie la verità del testo nella sua propria lettera liberandolo dagli automatismi percettivi che nel qual caso, e da sempre, sono invasivi. Infatti, principiando la lettura, Lavagetto si domanda come mai già nel vestibolo Boccaccio senta il bisogno di definire il proprio libro «Prencipe Galeotto», sinonimo di mezzano e paraninfo in quanto «dà consigli utili per assecondare i desideri, per ascoltare la voce del proprio corpo». La risposta è reiteratamente formulata fin dalla messa all’Indice del grande libro (1558) e nelle «rassettature» da apportare al testo secondo le indicazioni del Sant’Uffizio, che nel tempo fa approntare ben tre edizioni purgate, prima quella di Vincenzo Borghini (del 1573, ma così timida e scrupolosa che i padri censori la biasimano), poi di Leonardo Salviati, del 1588, così pesante che costui si guadagna da Traiano Boccalini la taccia di assassino del Boccaccio, infine di Luigi Groto, uscita postuma nel 1588, fitta di tagli e amputazioni dell’originale ovunque si nomini la sessualità e la disponibilità del corpo specialmente se connessa alla vita di ecclesiastici e alla dottrina religiosa.
Ma in effetti aveva cominciato Francesco Petrarca traducendo in un latino tanto raffinato quanto pudibondo la novella terminale e aveva continuato contro sé medesimo il Boccaccio in persona abiurando la propria opera come risulta da una lettera confidenziale, probabilmente scritta nel 1372, tre anni prima della morte, e indirizzata a un amico in cui parla del Decameron scusandosi per aver potuto scrivere cose tanto impure, indecenti, infamanti e perciò del tutto sconvenienti alle sue nobili donne di casa, inclitas mulieres tuas domesticas. Muovendo proprio dalle riscritture come fossero specchi ustori o filtri catalizzatori di vetusti pregiudizi interpretativi, nel rapporto fra la cosiddetta «cornice» (la peste nera del 1348 a Firenze, i dieci giovani che si ritirano in villa per novellare) e la scansione in «giornate» a tema della materia narrativa, Lavagetto individua un confine mobile e legittimato dalla stessa condizione di eccezionalità che discrimina quanto è dicibile dall’indicibile, quello che è lecito dall’illecito in termini di convenienza sociale e di etica individuale riguardo ai novellatori, sette ragazze e tre giovinetti, rappresentanti di una aristocrazia borghese che vive, appunto, in stato di eccezione trattando le cose più ordinarie ma per lo più compiacendosi e ridendo ai racconti di equivoci, di beffe, di raggiri.
Fatto sta che è sempre in gioco la forza dell’intelligenza di chi beffa e la stolta credulità, l’ineffabile bêtise, di chi invece è beffato, meglio se da una donna e qui Lavagetto richiama a un certo punto un saggio di Amedeo Quondam Le cose (e le parole) del mondo, in appendice all’edizione Bur 2013, dove si contano qualcosa come 42 epiteti boccacciani, per lo più encomiastici, di «donna». La linea di demarcazione dei racconti, a statuto variabile, corrisponde in sostanza alla liceità di nominare o meno il piacere sessuale libero da interdetti, specie se riferito a donne e non importa se nobili o subordinate. Alle figure femminili Lavagetto dedica le pagine più appassionate del suo studio, da Bartolomea Gualandi (Decameron II, 10) a Ghismunda (IV, 1), da Madonna Filippa (VI, 7) che rivendica con inaudita franchezza la sua femminilità a Griselda (X, 10), nel cui personaggio lo studioso non ravvisa certo una celeste apoteosi ma, al contrario, un culmine della complessità e contraddittorietà di sentimenti umani che si manifestano talora ai limiti dell’inspiegabile.
Simili figure non costituiscono affatto eccezione, esse sono semmai le autentiche protagoniste del libro «Galeotto», presenze femminili di frontiera nello spazio-tempo, voci dove vibra o può esplodere con foga il rigetto di una repressione atavica: «Una specie di aneddotica mise en abyme che Boccaccio si è proposto esplicitamente di realizzare pubblicando, quando le leggi erano ormai alquanto ‘ristrette’ al piacere, un’opera scritta all’ombra di leggi modificate e alterate sotto il regime appena trascorso della peste. In tal modo il confine della censura, che separava il lecito e l’illecito, veniva nettamente spostato». La finissima auscultazione della pagina, l’attitudine a lavorare sul testo come al microscopio, la capacità di cogliere immediatamente una filiazione linguistico-stilistica nel minimo dettaglio, fanno di Mario Lavagetto non solo lo studioso che è ma un critico materialista la cui fisionomia, si dica pure warburghiana, è unica nel nostro paese.
Nella analisi del Decameron lo soccorre la lezione del suo primo maestro, Giacomo Debenedetti, ma anche, da lui ricevuta con grande equilibrio, quella di Michail Bachtin che richiama a sua volta per una «singolare sintonia» la voce, nientemeno, di Francesco De Sanctis qui ormeggiato finalmente oltre l’angustia scolastica come interprete elettivo di un’opera che «fa ingresso a voce alta e beffarda nel mondo della materia e della carne (…) una grande opera rivoluzionaria e di liberazione che ha dato il via a quello che – sul piano storico-letterario – si configura come un gigantesco e quasi inimmaginabile ritorno del represso».