L’idea che il lavoro artistico rispecchi l’esperienza della vita è stata relegata da Walter Benjamin, ormai un secolo fa, nella soffitta delle mistificazioni. Forse anche perciò, nella letteratura critica moderna, la biografia artistica si rivela un genere sempre più impervio da affrontare, spesso tentato dallo slittamento nel romanzesco, dove la mitizzazione sovrasta il dato di realtà.

Nel caso di Debussy, la dicotomia tra ricerca puramente documentaria e analisi critica è particolarmente evidente, e oscilla, nei risultati disponibili a tutt’oggi, fra lavori definitivi come la biographie critique di François Lesure e un’interminabile costellazione di studi analitici su singoli aspetti della sua produzione. Il mondo di Debussy è quello delle grandi trasformazioni della cultura europea dei primi decenni del ’900, dove si moltiplicano a dismisura gli intrecci della musica con la letteratura, la pittura, la filosofia, i rivolgimenti sociali, e tutti questi ambiti si riflettono nelle tessere del mosaico, per certi versi misterioso, di cui si compone il ritratto di questo musicista affascinante quanto sfuggente.

Le fonti in tremila lettere
La vera novità degli studi su Debussy ha coinciso con la pubblicazione da Gallimard, nel 2005, dell’imponente Correspondance (1872-1918), un corpus di oltre tremila lettere raccolte e commentate da Lesure e Denis Herlin, che hanno disegnato la mappa finora più completa del mondo del musicista francese, delle sue relazioni, degli scarti nel suo percorso come artista e come uomo. A partire da questo materiale, fin’ora noto solo in maniera frammentaria e imprecisa, Enzo Restagno si è gettato nell’impresa di una monografia al tempo stesso comprensibile a un pubblico sprovvisto di strumenti analitici e pienamente attendibile sul piano scientifico: Claude Debussy Ovunque lontano dal mondo (Il Saggiatore, pp. 617, € 39,00).

Consapevole dei trabocchetti seminati in un percorso biografico punteggiato da relazioni clandestine, scandali coniugali, fughe amorose, ovvero da quanto di più idoneo a alimentare derive romanzesche peraltro rinforzate da contiguità simboliste, incontri nel contesto della gioventù bohémienne della Parigi degli impressionisti e dello Chat noir, Restagno ha schivato agevolmente il rischio dell’aneddoto restando saldamente ancorato all’epistolario, dunque lasciando parlare, fin dove possibile, l’autore e colmando i vuoti e le zone opache con informazioni documentate e attendibili, attinte dalle fonti più autorevoli della musicologia francese, che a partire dal centenario del 1962 ha ricostruito con lavoro certosino le vicende di Debussy «musicien français», come riporta il frontespizio delle ultime Sonates pour divers intruments.

Sgombrato il campo dalle insidie che si prestavano a trasformare il soggetto del proprio lavoro in un eroe destinato all’immortalità artistica, il saggio di Restagno si inoltra nel terreno più impervio e senz’altro più affascinante dell’analisi musicale, prendendo in esame una per una tutte le composizioni di Debussy, comprese quelle abbozzate, frammentarie e incompiute, che abbondano in un compositore votato alla scelta di navigare in acque inesplorate, fidandosi solo del proprio orecchio e del proprio gusto estetico.

Proprio questo è l’ambito in cui il saggio di Restagno offre il meglio di sé, grazie alla sensibilità dell’ascolto musicale, alla raffinatezza delle associazioni, alla perspicuità nel cogliere i debiti di Debussy sia verso la sua propria musica sia verso quella di altri compositori, a cominciare da Wagner, dal quale l’orecchio del giovane musicista trasse la prima vera e profonda traccia. Una volta penetrato il mondo sonoro di Debussy, il saggio ne traduce la capacità di «andare più lontano veramente, nella nostalgia e nella luce», come scrisse Mallarmé al musicista dopo aver ascoltato L’après-midi d’un faune.

Magistrale il capitolo riservato alla scoperta del gamelan indonesiano, i cui echi raramente sono stati rintracciati in maniera altrettanto precisa e convincente nelle partiture degli anni Novanta; e le pagine sulle grandi serie pianistiche del Novecento culminanti nei due fascicoli delle Etudes; e soprattutto la parte che riguarda le ultime tre Sonate, quanto resta del progetto di sei lavori strumentali il cui ciclo rimase incompiuto per la morte di Debussy, nel 1918.

Scrive a Durand
Le affinità di Restagno con il mondo culturale francese a cavallo del Novecento, già all’origine del precedente lavoro su Ravel, gli permettono di evidenziare il pervasivo rapporto di Debussy con la parola poetica, che si riverbera in mille forme consentendo di cogliere la sbalorditiva sensibilità poetica di un musicista illetterato e tuttavia capace non solo di rivestire musicalmente in maniera perfetta i versi più raffinati della poesia francese, da Verlaine a Mallarmé, a Baudelaire, a Louÿs, ma di esprimersi in uno stile tra i più originali e brillanti della sua lingua: ne fa fede, almeno, il passo di una lettera inviata da Debussy, ormai in punto di morte, al suo editore Durand, nel quale paragona l’incertezza della scelta tra le varie versioni del finale scritto per la Sonata per violino e pianoforte «a una di quelle mille tragedie intime che cadendo non fanno più rumore dei petali di una rosa che si sfoglia, e lasciano l’universo tranquillo».