È un racconto crudele della giovinezza quello di Pin Cushion, film d’esordio della regista inglese Deborah Haywood presentato in apertura della Sic. Le protagoniste, l’adolescente Iona e l’impacciata madre schernita da tutti per la sua gobba, si trasferiscono un giorno in una piccola cittadina inglese dove ricominciare le loro vite – anche se del loro passato non ci è dato sapere nulla. Circondate da peluche e soprammobili di porcellana vivono in una sorta di mondo parallelo che verrà infranto dall’ingresso di Iona a scuola, dal suo desiderio di essere accettata, dalla vergogna che prova nei confronti di chi viene percepito come diverso: se stessa e la madre che tiene accuratamente nascosta alle nuove amiche. Il suo disagio e i suoi tentativi maldestri di essere amata la rendono presto la vittima preferita dei bulli del liceo, delle sue stesse amiche: «Volevo raccontare questa storia perché da ragazza ho attraversato problemi simili: il bullismo, le difficoltà a scuola. Ma mi interessava indagare anche le dinamiche dell’amicizia, dei rapporti umani», spiega la regista, che con Pin Cushion affronta un tema quanto mai attuale evitando l’arida lezioncina morale di uno spot anti-bullismo come la serie 13 e apre invece uno spiraglio sulla vera crudeltà dell’adolescenza, tanto più reale quanto più evita il quadretto sociologico, la catena deterministica di cause ed effetti, e – con i suoi colori accesi e i vividi sogni a occhi aperti di Iona – ci accompagna in una dimensione che si muove continuamente dalla realtà alla fantasia.

Una scena di «Pin Cushion»
Una scena di «Pin Cushion»

Il film esplora gli aspetti più brutali dell’adolescenza: non solo il bullismo ma anche la paura di essere visti come diversi, il desiderio di essere accettati.

Volevo spingere queste dinamiche all’estremo: non mi interessava il «realismo sociologico», ho scelto di esplorare problemi universali attraverso una fiaba crudele…

Pin Cushion si svolge infatti tra due dimensioni: il mondo esterno e le fantasie di Iona.

È stata una scelta spontanea: io stessa mi sono sempre rifugiata nei sogni a occhi aperti e nelle fantasie per affrontare la realtà, e per sfuggirla. Dato che un film non è un romanzo, dove si può entrare nella mente dei protagonisti, per tradurre l’interiorità di Iona sullo schermo io e il direttore della fotografia abbiamo deciso di spingerci oltre il realismo anche nelle immagini, facendo ricorso a una paletta di colori intensi e divertendoci con tutte le possibilità offerte dal cinema. Lily Newmark, l’attrice che interpreta Iona, mi ha poi fatto pensare alla Sissy Spacek in Carrie di Brian De Palma: un film che mi è sempre rimasto impresso e che abbiamo citato in diverse scene dato che in fondo affronta temi simili.

Gli spettatori vengono però tenuti all’oscuro del passato delle due protagoniste.

È una decisione dovuta al tipo di narrativa che abbiamo scelto – la fiaba appunto: nelle storie per bambini non viene dato nessun background dei personaggi. È anche un modo per includere lo spettatore nel film, portandolo a farsi più domande, e allo stesso tempo di focalizzare unicamente l’attenzione sulla storia.

Anche l’ambientazione è ambivalente: sembra di trovarsi in un mondo fuori dal tempo, ma la presenza dei social media lo colloca chiaramente nei nostri giorni.

Ancora una volta, è una dimensione senza tempo come nelle fiabe. Ma anche perché sono problemi che ci appartengono da sempre in quanto essere umani: la natura delle emozioni pone continuamente le stesse sfide. Ho però aggiunto anche dei riferimenti all’attualità perché i social media hanno cambiato la prospettiva quando si parla di bullismo, di sopraffazione: hanno di gran lunga peggiorato le cose, aggravando la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato in chi ne è vittima.